Il Sudan al voto


Campagna Italiana per il Sudan


Dall’11 al 13 aprile si terranno in Sudan le prime elezioni multipartitiche dopo 24 anni. Il clima è confuso e burrascoso.


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Il Sudan al voto

Dall’11 al 13 aprile si terranno in Sudan le prime elezioni multipartitiche dopo 24 anni. Si tratta di elezioni a lungo attese, che avrebbero dovuto costituire un caposaldo nel processo di democratizzazione messo in moto dalla firma degli accordi di pace che a Nairobi, nel gennaio del 2005, avevano messo fine ad una guerra lunga 22 anni tra il Nord e il Sud del paese. Vi si arriva invece in un clima confuso e burrascoso, in cui l’unico elemento certo è che queste elezioni non potranno essere definite credibili, neppure considerando standard minimi di credibilità.

Infatti, nelle ultime settimane diversi rapporti di organizzazioni e centri studi internazionali (Human Rights Wacth, Rift Valley Institute, International Crisis Group, tutti consultabili dal web) hanno denunciato la violazione dei diritti umani, politici e di cittadinanza compiuti nel periodo elettorale, tanto che un autorevole analista della situazione sudanese, Fouad Hikmat, ha dichiarato che “non esiste il contesto legale necessario per elezioni libere e credibili” sottolineando che “la comunità internazionale deve riconoscere che, chiunque vincerà, mancherà di legittimità”.

Che il confronto tra il partito del presidente Al Bashir, il National Congress Party – NCP – salito al potere nel 1989 con un colpo di stato militare, e l’opposizione sarebbe stato durissimo è stato chiaro fin dal momento del censimento, svoltosi nella primavera del 2008, i cui risultati, essenziali per delineare i collegi elettorali, le rappresentanze nel parlamento nazionale, e le quote di spartizione delle risorse petrolifere del paese, non sono mai stati accettati dall’SPLM, il movimento di liberazione del Sud, associato al governo di unità nazionale. Altre prove di forza si erano avute su leggi importanti per il rispetto delle garanzie democratiche, quale quella per la sicurezza nazionale, durissimamente contrastata da tutta l’opposizione come lesiva delle libertà democratiche fondamentali.

Ciononostante il processo elettorale si era messo in moto ed era proseguito, tra accuse di irregolarità procedurali e abusi, ma senza prese di posizione radicali fino al 31 marzo, quando l’SPLM annunciava il ritiro dalla competizione elettorale del proprio candidato, Yasser Arman, che fino a quel momento era il maggior contendente del presidente in carica, dichiarando che la decisione era dovuta proprio alle numerose irregolarità nel processo elettorale e alla situazione in Darfur, ancora così instabile da non consentire  una consultazione minimamente credibile.

Da quel momento il clima, già caldo, si è fatto incandescente e la situazione sempre più confusa con il passare delle ore. A due giorni dall’apertura delle urne, non è chiaro chi parteciperà ufficialmente alle elezioni. L’SPLM, che, per bocca del suo segretario generale, Pagan Amun, aveva dichiarato di boicottare le lezioni in 13 dei 15 stati del Nord, due giorni dopo, con una dichiarazione del suo presidente, Salva Kiir, annunciava invece che solo il candidato alla presidenza è stato ritirato e l’unico boicottaggio sarà portato avanti nel Darfur. L’Umma Party, il maggior partito di opposizione del Nord, dopo numerosi ripensamenti, sembra invece deciso ad un boicottaggio totale, come il l’Umma Party Riformato e il Partito Comunista. Il condizionale però è d’obbligo, visto il clima, e le pressioni, interne ed esterne, cui le forze politiche sudanesi sono sottoposte in questi giorni.

Sul fronte interno certamente gioca in modo pesante la minaccia dell’NCP di far saltare il referendum per l’autodeterminazione, previsto per il gennaio del prossimo anno, se queste elezioni non potranno svolgersi come previsto.

La comunità internazionale, dal canto suo, e in particolare l’inviato speciale americano Scott Gration, non risparmiano gli sforzi per salvare il salvabile di queste elezioni, tanto che il presidente sudanese, ricercato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini di guerra in Darfur, ha potuto dichiarare: “Perfino l’America sta diventando un membro dell’NCP. Nessuno è contro la nostra volontà”. Intanto centinaia di osservatori internazionali stanno cercando di dispiegarsi sul territorio, fra difficoltà di ogni genere, comprese le aperte minacce del presidente a coloro che avevano suggerito uno slittamento di data a causa delle difficoltà logistiche ancora non risolte.
   
Ma a chi giova l’attivismo dell’ultima ora della comunità internazionale? Il Sudan Democracy First Group, una coalizione di sudanesi democratici di diverse appartenenze politiche ed etniche e rappresentanti di diversi gruppi sociali, in due documenti diffusi nei giorni scorsi chiede che sia garantita l’imparzialità e che siano evitate indebite interferenze volte a spostare gli equilibri politici interni. Chiede inoltre il ritiro immediato degli osservatori internazionali, destinati a fungere da copertura ad un processo che ormai ha perso chiaramente di legittimità. A parere di questo gruppo di attivisti sudanesi, che dichiara di operare in collaborazione con altri simili iniziative sorte nel paese, ma anche di molti analisti indipendenti, in queste elezioni non sarebbe più in gioco il consolidamento della pace firmata nel 2005 e l’esercizio democratico di un fondamentale diritto di cittadinanza dei sudanesi, garantito dalla costituzione vigente, ma la necessità di legittimazione internazionale del regime uscito dal colpo di stato del 1989 e del suo presidente, colpito da un mandato di cattura internazionale.

Verranno ascoltati? Temiamo di no, anche se un segnale è stato dato dalla missione europea, che ha ritirato i propri osservatori dal Darfur, a causa del persistente clima di insicurezza che non permette loro di lavorare, e  dunque neanche di svolgere elezioni libere e credibili. Temiamo che anche la comunità internazionale abbia i suoi propri interessi da giocare nell’area, e che questi non coincidano con quelli dei sudanesi che vorrebbero consolidare la pace e sviluppare un sistema politico democratico nel proprio paese.

Le elezioni si faranno; la comunità internazionale le avvallerà, nonostante tutto, come è successo in Afghanistan, e anche in Iraq. Cosa succederà dopo lo si vedrà nelle prossime settimane che saranno certamente turbinose per il più grande e complesso paese dell’Africa, al centro di una delle aree geografiche più instabili del mondo.

Fonte: Campagna Italiana per il Sudan

9 aprile 2010

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