Il racconto: immigrati, sangue e torture nelle carceri libiche


Gabriele Del Grande


Un grido da Ganfuda: "Venite a vedere come ci fanno morire". Il racconto dal lager di un testimone delle violenze documentate dalle fotografie. "Respingeteci in Somalia. La guerra è meglio di questo inferno libico". E ieri, intanto, è cominciato lo sciopero della fame: "Abbiamo paura, questi ci ammazzano".


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Il racconto: immigrati, sangue e torture nelle carceri libiche

La comunità internazionale deve sapere. Siamo pronti a morire. Da ieri abbiamo iniziato uno sciopero della fame. Abbiamo paura. Questi ci ammazzano. Meglio tornare nel nostro paese, fanculo la guerra, in Somalia almeno eravamo liberi. Qua dentro stiamo tutti impazzendo. Nessun essere umano potrebbe tollerare quello che sta accadendo qui. La comunità internazionale deve sapere». Dopo aver pubblicato le foto delle torture inflitte dalla polizia libica ai rifugiati somali arrestati sulla rotta per l’Italia e detenuti a Ganfuda, vicino Bengasi, siamo riusciti a raggiungere telefonicamente uno di loro. Questo è il suo drammatico racconto. Alle sue parole non rimane niente da aggiungere.

«È cominciato tutto di sera, intorno alle 20. Dopo cena. Sai Ganfuda è una grande prigione. E al centro c’è un grande cortile. Dove ci portavano la sera per l’ora d’aria. All’epoca eravamo un migliaio, la metà somali. Quella sera, a un certo punto, somali e nigeriani hanno assaltato in massa il cancello per fuggire. I poliziotti erano sbalorditi. Erano in minoranza, non sapevano cosa fare. All’inizio ci hanno attaccato con i manganelli. Poi con i coltelli, e alla fine, quando la situazione era ormai fuori controllo, hanno iniziato a sparare, per spaventarci. Sparavano in aria. Ma alcuni sono stati feriti. Hai visto le foto che abbiamo mandato a Shabelle? Lì si vedono! Sono quelli con le garze alla schiena, li hanno portati in ospedale, e li hanno riportati in carcere dopo due o tre giorni. Da allora è un inferno. Ci tengono rinchiusi in cella 24 ore su 24, non possiamo nemmeno affacciarci alla feritoia della porta». «Io di cadaveri personalmente ne ho visti cinque. È stata la polizia a dirci il giorno dopo che i morti erano venti. Non conoscevo bene le vittime. Però due cari amici fanno parte del gruppo dei 130 che sono scomparsi. Tutti i giorni mi telefonano i loro familiari, da Mogadiscio, e mi chiedono notizie. Ma nessuno sa che fine abbiano fatto. Se siano riusciti a fuggire, o se siano in un altro carcere. Con uno di loro avevamo fatto il viaggio insieme. Eravamo partiti dal Sudan sulla stessa macchina. Quando ci hanno arrestato, sei mesi fa, avevamo appena attraversato il Sahara. Prima ci hanno portato nel carcere di Kufrah. Siamo stati lì per un mese. Poi ci hanno trasferito qui a Ganfuda. Dicevano che questo era il centro dei somali».

«Dopo il massacro ci hanno chiamato Amnesty e Human Rights Watch, dicendo che avrebbero avvisato le Nazioni Unite. Ma non abbiamo visto nessuno. Intanto dicono che ci sia stata una specie di amnistia. Un accordo tra la Libia e il governo somalo per cui una parte dei somali detenuti in Libia saranno rilasciati. Ma quell’accordo non vale per noi? Perché il nostro primo ministro non ci viene a visitare? L’unico modo per uscire è la corruzione. C’è uno strano giro sai. C’è un accordo tra gli intermediari somali e certi poliziotti libici. Paghi 1.100 dollari e sei fuori». «Voi da fuori non potete immaginare. Siamo disperati, ci lasceremo morire con questo sciopero della fame! Siamo persone, non possono trattarci come animali! Guarda, davanti a me c’è un ragazzo di 16 anni. Mi fa una pena. L’hanno accoltellato cinque volte, nella coscia. Siamo profughi, non possono trattarci così. Prendi il mio caso. Io ho 25 anni. Ho lasciato Mogadiscio alla fine del 2008. In Somalia non avevo un lavoro vero e proprio. Sai com’è la situazione. Il paese è allo sbando. Sono dovuto fuggire. L’inglese lo parlo così bene perché ho un fratello e una sorella a Londra. Il mio progetto era di raggiungerli. Ma non so se lo sia ancora. Vedi in Libia abbiamo perso la speranza. Non ci resta che la morte. È molto triste. Non riesco a spiegarti. Dovresti vedere con i tuoi occhi. Scrivi. Scrivi sul tuo giornale che chiediamo alla comunità internazionale, alle Nazioni unite e al governo somalo di venire qui a Ganfuda a vedere di persona quello che stiamo passando».

«Scrivi sul tuo giornale, che qui in carcere è peggio che in guerra. Perché non siamo liberi, perché abbiamo perso la nostra dignità. Perché siamo torturati. Prima non ti ho detto una cosa. Tu non sai cosa è successo dopo la rivolta. Per sette giorni, ogni giorno, a ogni cambio di turno, i militari entravano nella cella, senza dire niente, si guardavano intorno e poi iniziavano a picchiare. Ci prendevano a bastonate. Seminavano il terrore. Poi uscivano. E dopo qualche ora arrivava un altro gruppo. Che poi hanno una specie di manganello elettrico. Ma quello lo usavano soprattutto per torturare gli eritrei».

«Credimi. Ti ho detto la verità e voglio essere sincero fino in fondo. Gli eritrei sono stati torturati più dei somali. Molto di più. E sai perché? Perché sono cristiani. Per un problema di religione, i poliziotti sono così ignoranti… Alcuni ragazzi stanno impazzendo. La notte, quando tutti dormono a terra, loro restano in piedi e continuano a parlare al muro, come se avessero le allucinazioni». «Ora mi dici che l’Italia sta respingendo in Libia i somali fermati in mare, non so, forse sarebbe meglio rispedirci direttamente in Somalia. Non so come se la passano i respinti nei campi a Zuwarah e Tripoli, ma se è come da noi a Ganfuda, tanto vale che ci rimpatriate tutti. Portateci via. Dove volete. Anche in Somalia. Ma fateci uscire da qua».

Fonte: L'Unità

3 settembre 2009

Clicca sul sito www.unita.it per vedere le foto

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