Il puzzle di Kerry lascia fuori pezzi di Palestina


NEAR EAST NEWS AGENCY


L’ottimismo del segretario di Stato USA completamente scollegato dalla realtà. Casa Ebraica minaccia Netanyahu: “Fuori dal governo se Israele accetta i confini del ’67”.


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Scorrendo le notizie di oggi su Palestina e Israele, la lista delle violazioni israeliane si allunga: ordini di demolizione, uccisioni di giovani palestinesi senza giustificazione, distruzione di pozzi d’acqua in Cisgiordania.

In un simile contesto, ormai “istituzionalizzatosi” in sei decenni di occupazione militare, l’ottimismo del segretario di Stato statunitense Kerry appare quantomeno fuori luogo. Durante l’ennesima visita nella regione da luglio, quando il processo di pace tra israeliani e palestinesi è stato riaperto, Kerry ha passato il suo tempo lanciando appelli alle due leadership perché assumano decisioni difficili a favore di un accordo di pace definitivo.

“Un piano di pace giusto e bilanciato – ha detto Kerry ieri – Alla fine tutti gli elementi chiave si intersecheranno come un mosaico, un puzzle in cui sarà impossibile separare un pezzo dall’altro“. Resta da capire quali siano i pezzi di questo puzzle, figlio del potere contrattuale israeliano e della marginalizzazione della leadership palestinese. In primo luogo, il riconoscimento di Israele da parte dell’Autorità Palestinese come Stato ebraico: una richiesta inaccettabile per qualsiasi leader palestinese, che in tal modo cancellerebbe l’inalienabile diritto al ritorno dei milioni di profughi palestinesi all’estero. Il presidente Abbas ha già rispedito al mittente un’imposizione che non solo eliminerebbe il diritto al ritorno, ma che finirebbe per istituzionalizzare le discriminazioni nei confronti dei palestinesi cittadini israeliani.

In secondo luogo, la Valle del Giordano che Netanyahu non intende cedere, ma rendere in via definitiva area militare israeliana, al fine – questa la giustificazione – di controllare e impedire l’ingresso di armi e miliziani dalla Giordania. Nella realtà, l’obiettivo è ben altro: impedire all’eventuale nuovo Stato di Palestina di aver confini verso l’esterno, chiuderlo in un enclave controllata su ogni lato dallo Stato di Israele.

Il premier israeliano non si muove di un passo e prosegue nel lancio di accuse contro l’ANP: “I palestinesi continuano nella loro campagna di incitamento all’odio – ha detto ieri Bibi nel meeting ministeriale settimanale – Lo si è visto negli ultimi giorni con il rifiuto a riconoscere Israele come Stato ebraico”.

I negoziati in corso stanno intanto provocando serie spaccature all’interno della coalizione di governo, con i membri più ultranazionalisti che minacciano la caduta dell’esecutivo Netanyahu nel caso accolga le richieste palestinesi: uno Stato in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come capitale, e la fine della colonizzazione dei Territori. Casa Ebraica, partito espressione del movimento dei coloni, ha già affilato l’ascia di guerra: fuori dal governo se Netanyahu accetterà i confini del 1967.

E mentre il governo israeliano discute, Kerry vola in Giordania e Arabia Saudita, considerati i partner naturali e necessari alla pace. In ogni caso la decima visita ufficiale del segretario di Stato USA si conclude con un nulla di fatto. Impossibile tagliare il traguardo voluto dall’amministrazione Washington, quello di un accordo quadro entro gennaio. Il puzzle che Kerry intende imporre è fatto di pezzi che mai combaceranno tra loro: pezzi di Palestina svenduta al potente alleato israeliano e pezzi della popolazione della diaspora che attende da 66 anni di far ritorno nella propria terra e chiusa nel dimenticatoio internazionale.

Fonte: Nena News

6 gennaio 2013

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