Il progetto dei caccia F-35 non si è mai fermato
Giampaolo Cadalanu
Ignorate le “moratorie”: gli acquisti dei caccia non si sono mai fermati, nonostante il Parlamento abbia due volte, a giugno e luglio dello scorso anno, rilevato che il programma Joint Strike Fighter è sproporzionato.
MACCHÉ rinvii, tagli o sacrifici: il programma di acquisto degli F-35, i caccia bombardieri più costosi della storia, in realtà non si è mai fermato. E questo nonostante il Parlamento abbia due volte, a giugno e luglio dello scorso anno, rilevato che il programma Joint Strike Fighter è sproporzionato per la politica di difesa e soprattutto per i bilanci del Paese. I contratti parziali per i diversi lotti di produzione, con l’ordine definitivo delle componenti, sono andati avanti in automatismo.
IN UN modo che per il momento sembra ignorare l’impegno a una “moratoria” nei pagamenti indicato dal neo ministro della Difesa Roberta Pinotti immediatamente dopo l’incarico di governo.
L’accusa che tutto continua senza ripensamenti viene dagli attivisti della campagna “Tagliamo le ali alle armi”, che riportano i dati del Pentagono per sottolineare come i contratti di acquisto riferiti ai “lotti” 8 e 9 mostrino date posteriori alle mozioni parlamentari di giugno e luglio. L’apparato della Difesa sarebbe andato avanti nel programma del caccia, ignorando le raccomandazioni delle Camere,perché dall’allora ministro Mario Mauro non era mai arrivata alcuna correzione di rotta. Il Segretariato della Difesa, che segue le acquisizioni, ha semplicemente fatto seguito a ordini già ricevuti. La Difesa smentisce la ricostruzione: secondo i responsabili delle acquisizioni, l’impegno dell’Italia in sede di Joint Program Office era stato preso in precedenza. I documenti però, contrariamente a quelli del Pentagono, non sono pubblici. Secondo i pacifisti, invece, non basta un generico impegno non contrattuale: l’unico documento vincolante è quello firmato dal Dipartimento della Difesa su richiesta italiana con l’azienda produttrice Lockheed-Martin.
Le esigenze di riduzione del programma Joint Strike Fighter dividono e suscitano incertezze anche all’interno del Pd: c’è voluta una espressa decisione di Matteo Renzi per confermare che nei prossimi giorni i deputati discuteranno il documento uscito dalla commissione Difesa, fortemente voluto dal capogruppo in commissione Gian Piero Scanu, in cui si indicano come necessari tagli molto robusti alle spese militari e al programma JSF in particolare. Più scettici e dunque “possibilisti” nei confronti del controverso cacciabombardiere sarebbero il capogruppo in commissione Difesa al Senato, Nicola Latorre, il sottosegretario Marco Minniti e lo stesso ministro Pinotti, che hanno fatto proprie le raccomandazioni del Quirinale sulla tutela degli accordi atlantici.
Senza una sforbiciata ai sistemi d’arma richiesti dalle Forze Armate, i novanta F-35 ma anche l’informatizzazione completa dell’Esercito, le fregate volute dalla Marina e diversi armamenti antiaerei, la cura dimagrante rischia di essere solo una razionalizzazione dello strumento militare, nel quadro della riforma avviata dall’ammiraglio Giampaolo Di Paola. Il concetto base è stato riproposto anche ieri dai vertici delle Forze Armate. I risparmi richiesti sono stati definiti «una riduzione epocale di 50 mila posti di lavoro in 10 anni, tra militari e civili» dal capo di Stato maggiore della Difesa Luigi Binelli Mantelli. È un taglio robusto che però, come ha già denunciato nei mesi scorsi la Ragioneria di Stato, non corrisponde
a risparmi reali perché si affianca a stanziamenti enormi per i sistemi d’arma.
Paradossalmente, insomma, i fondi risparmiati in stipendi per militari italiani — in qualche caso persino togliendo il posto di lavoro ai soldati più giovani con esperienza di missioni all’estero — verrebbero spesi per acquistare armi, e una parte robusta finirebbe all’estero. Al cammino travagliato del caccia si sono aggiunti nei giorni scorsi gli ennesimi guai tecnici. Sono arrivati in un momento apparentemente positivo: la Lockheed Martin stava festeggiando un nuovo corposo contratto con la Corea del sud, che ha deciso di comprare quaranta F-35 per un valore attorno ai 6,8 miliardi di dollari. E gli stati maggiori statunitensi celebravano la prima uscita notturna dalla base di Eglin (perché fino a pochi giorni fa le differenze nella strumentazione di bordo fra i jet destinati alla
Marina, al corpo dei Marines e all’Aeronautica confondeva i piloti durante il volo notturno) e si apprestavano a far volare il caccia nel primo volo transoceanico.
Ci hanno pensato gli ingegneri a rovinare la festa, quando hanno scoperto che il complicatissimo software di gestione delle macchine è ancora difettoso: i perfezionamenti richiederanno più tempo del previsto (sono previsti fino a 13 mesi di ritardi). Le messe a punto sono necessarie soprattutto per gli aspetti informatici della versione Stovl, a decollo corto e atterraggio verticale, voluta anche dalla Marina italiana per equipaggiare la portaerei Cavour al posto degli obsoleti Harrier.
La soluzione, ancora una volta, è ricorrere a nuovi finanziamenti. Nel caso dello sfortunato jet, gli esborsi sempre ritoccati verso l’alto e sempre insufficienti hanno spinto persino a queste considerazioni: «Finanziamenti di questa grandezza pongono chiaramente dei problemi di sostenibilità a lungo termine». A parlare non è il commissario italiano delegato ai tagli, ma gli esperti del Pentagono.
Fonte: La Repubblica
29 marzo 2014