Il processo di pace? A data da destinarsi
Paola Caridi - invisiblearabs.com
C’è una battuta che circola oggi tra gli israeliani, qui a Gerusalemme. e riguarda il successo di Benjamin Netanyahu alla conferenza dell’AIPAC, e il suo incontro con il presidente Barack Obama.
C’è una battuta che circola oggi tra gli israeliani, qui a Gerusalemme. e riguarda il successo di Benjamin Netanyahu alla conferenza dell’AIPAC, e il suo incontro con il presidente Barack Obama. Netanyahu è riuscito a ottenere un ottimo risultato, dice la battuta. Perché è riuscito a guadagnare l’appoggio di Obama sulla linea dura riguardo al nucleare iraniano? No, perché è riuscito a far mettere in un cassetto il conflitto israelo-palestinese.
La battuta non è solo un modo per non parlare dell’attacco all’Iran, che ormai apertamente preoccupa l’israeliano medio. La paura di una nuova guerra c’è, e lo si capisce dal fatto che tra gli amici se ne comincia a parlare, e a non nasconderla. Nonostante le elezioni iraniane, come ben spiega Anna Vanzan, facciano sperare in una riapertura del dialogo sul nucleare, perché Ahmadinejad ha perso e gli ayatollah – ultraconservatori, certo – hanno vinto e vogliono conservare il proprio potere, anche attraverso il negoziato. Sono più propensi al confronto, insomma, ma “con un segnale chiaro”, come spiega una delle nostre migliori esperte di Iran. “La Guida Suprema vuole avocare a sé la gestione di questo dialogo. Con l’idea di sacrificarsi per il bene comune, come ha fatto finora: minacce alternate a ritrattazioni, con una retorica pubblica inflessibile e un pragmatismo di fatto. La retorica ufficiale si manterrà uguale, ma per altre vie si punterà al dialogo”.
Tutta la scena dell’incontro tra Netanyahu e Obama è stata concentrata sull’Iran, dunque. Se c’è stato un argomento tralasciato, rinviato, è stata proprio la crisi israelo-palestinese. È evidente che (quasi) tutte le parti in causa giochino per il rinvio, perché ci sono ora altre priorità, rispetto questo conflitto a bassissima intensità. Come già succede da anni – ma solo ora la questione inizia a divenire stringente anche per l’opinione pubblica -, il nucleare iraniano è la priorità sia israeliana sia americana. Anche se per diverse ragioni.
Per gli israeliani, fermare l’Iran – ora – significa conservare un primato in Medio Oriente. Nonostante le rivoluzioni arabe del 2011, nonostante il ruolo sempre più importante della Turchia, nonostante (o forse proprio per) la prossima fine ingloriosa di Bashar el Assad, Israele vuole impedire una nuova balance of power con potenze regionali che rivendicano il proprio indiscutibile ruolo geopolitico nell’area.
Per gli americani, ridurre l’influenza iraniana vuol dire sperare che quel singolare equilibrio ‘squilibrato’ che regna in quell’area compresa tra l’Iraq e l’Afghanistan non venga rotto da una ricomposizione degli equilibri tra le potenze regionali.
Per gli egiziani, i sauditi, gli emirati del Golfo, la battaglia contro il nucleare iraniano vuol dire spostare l’attenzione dalle richieste ineludibili di democratizzazione verso gli equilibri tra i governi dell’area, e dunque rinviare l’inevitabile scontro interno tra i regimi e i propri cittadini.
Persino per i palestinesi, impegnati in un lento e farraginoso processo di riunificazione politica, il fatto che il cosiddetto ‘processo di pace’ sia stato messo in un cassetto consente alle èlite politiche di concentrarsi proprio sugli equilibri interni, e sulla ricomposizione del potere. Oggi dice Ahmed Youssef da Gaza (è ancora uno degli esponenti dell’ala pragmatica di Hamas ma senza più avere un ruolo nel ministero degli esteri della Striscia) che il nuovo governo di unità nazionale si dovrebbe fare entro due settimane. Chissà. Per ora il processo di riunificazione tra Hamas e Fatah, tra Cisgiordania e Gaza è un processo, appunto. E non una realtà. Ma l’aver accantonato il processo di pace non sembra turbare molto l’animo dei negoziatori palestinesi. Sembra paradossale, se si pensa che nulla è cambiato – se non in peggio – in Cisgiordania e a Gerusalemme est nel confronto tra palestinesi e coloni israeliani. Eppure, nella sfera politica, questa è l’aria che si respira. Con buona pace del vento che dal dicembre del 2010 è spirato per tutta la regione.
Fonte: http://invisiblearabs.com/
8 Marzo 2012