Il pendolo di Obama


Janiki Cingoli


Si è sottovalutata, in Italia, la portata del recente discorso di Netanyahu. Con esso, il premier israeliano ha ottenuto il risultato di collocarsi al centro dello schieramento politico israeliano, senza perdere i suoi alleati di estrema destra, anche per i richiami ideologici e politici di tutto il suo discorso.


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Il pendolo di Obama

In quel quadro, la accettazione di un possibile Stato palestinese demilitarizzato veniva concepito come una necessità dovuta all’attuale contesto internazionale, e alla pressione esercitata dall’alleato americano. Inoltre, essa era limitata da una serie da restrizioni, relative a Gerusalemme, alle condizioni di sicurezza, agli insediamenti, che ne depotenziavano fortemente la novità. Tuttavia, il passo in avanti era innegabile, e rimuoveva uno dei fondamentali ostacoli alla ripresa del dialogo.

La più colpita dalla apertura del leader israeliano era indubbiamente Tzipi Livni, capo della opposizione, le cui posizioni, nel merito delle proposte, non si differenziavano in maniera sostanziale, né sugli aspetti di sicurezza né sulla questione degli insediamenti. Limitarsi a sostenere, come ella ha fatto, che Netanyahu non era sincero nella sua proposta, non è un grande argomento politico, perché è evidente che la sincerità di una proposta può essere verificata solo in pratica, andandola a vedere nel corso della trattativa. Non a caso, è ripresa all’interno di Kadima l’offensiva del suo rivale alle primarie, Shaul Mofaz, incerto se contestarne la leadership o rientrare con un gruppetto di altri deputati nel Likud.

Al contrario, si veniva drammaticamente rafforzando la posizione di Barak, alleato oramai centrale all’interno del governo, che veniva sempre più svolgendo una funzione di supplenza del Ministro degli Esteri Lieberman, incapace di dialogare con gli americani su un tema che lo vedeva coinvolto personalmente, dato che anch’egli risiede in uno degli insediamenti.

Anche per i palestinesi, la situazione si è fatta più complessa: finché durava il rifiuto del Primo Ministro israeliano, si sentivano in una botte di ferro. Respingere l’apertura del negoziato per il mancato congelamento degli insediamenti appariva difficile, dato che dopo Annapolis, per tutto il 2008,  il negoziato con Olmert era continuato mentre le costruzioni negli insediamenti aumentavano del 40%. Il rifiuto palestinese risultava in definitiva sostanzialmente comodo per Netanyahu, che poteva vantarsi della sua apertura senza essere chiamato a confrontarsi sul merito dei temi relativi al negoziato finale, su cui probabilmente le sue posizioni sono più distanti da quelle USA rispetto a quelle del presidente della ANP.

Anche per lo staff di Obama, la questione si faceva più complessa: prima ci si trovava di fronte a un rifiuto totale da parte israeliana, ora in presenza di una apertura che non poteva essere ignorata, soprattutto mentre da parte degli Stati arabi non venivano aperti grandi spiragli in direzione di possibili passi graduali di apertura verso lo Stato ebraico, quali la apertura dei loro spazi aerei o la apertura di uffici commerciali e di interesse.
Il confronto tra la Amministrazione USA e quella israeliana si veniva quindi concentrando sulla questione degli insediamenti, e si stava tentando di raggiungere un compromesso, sulla questione della cosiddetta “crescita naturale” dei grandi blocchi abitativi in Cisgiordania, con l’impegno israeliano di rimuovere gli avamposti non autorizzati, di non costruire nuovi insediamenti e di non confiscare altra terra palestinese, ma con la accettazione da parte statunitense del completamento di di alcune migliaia di unità abitative, che sarebbero state già appaltate o per cui sarebbero già stati stipulati contratti di acquisto. I negoziati venivano condotti in prima persona dall’inviato speciale per il Medio Oriente, Mitchell e un possibile accordo pareva profilarsi.
A questo miglioramento dei rapporti contribuiva anche la decisione israeliana di rimuovere quasi tutti i blocchi stradali in Cisgiordania, facilitando in maniera decisa la libertà di movimento della popolazione palestinese.

Negli ultimi giorni, la questione si è però complicata: la decisione israeliana di dare libero corso alla costruzione di alcune decine di appartamenti in un quartiere arabo, a Gerusalemme Est, ha spinto gli Usa a dichiarare che per loro si trattava di insediamenti pari a quelli della Cisgiordania, e Netanyahu a riaffermare il diritto del suo paese a edificare ovunque entro Gerusalemme,  “Capitale unica e indivisibile di Israele”.

La mossa degli USA ha preso un po’ in contropiede il Premier israeliano, che pensava di essere oramai vicino ad una soluzione del contenzioso con gli USA, rinfocolando i suoi sospetti di una ostilità di fondo di Obama, che alimenterebbe la distinzione rispetto a Israele per facilitare il riavvicinamento al mondo arabo e mussulmano, in ciò aiutato anche da “ebrei che odiano sé stessi”, come Netanyahu ama chiamare in privato i consiglieri presidenziali Rahm Emanuel e David Axelrod. Si tratta di capire ora in che direzione si muoverà il pendolo di Obama.

Fonte: cipmo.org
23 Luglio 2009

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