Il pasticcio della cooperazione
Lucio Caracciolo
Il Parlamento si appresta a varare una legge che rinuncia a concepire la cooperazione come uno strumento della nostra politica sulla scena internazionale.
NELL' INDIFFERENZA quasi generale, ciò che resta della cooperazione italiana nel mondo rischia di essere affossato in una battaglia su chi debba gestirla. Il parlamento si appresta a varare una legge che rinuncia a concepire la cooperazione come uno strumento della nostra politica sulla scena internazionale, mentre garantisce alla nostra diplomazia le sue storiche prerogative in materia, quasi ne avesse fatto buon uso. Che ciò possa nuocere al Paese sembra valere meno della necessità di conservare un asset burocratico-amministrativo in tempi di magra per la Farnesina. La vicenda inizia alla fine dello scorso anno, quando Monti inventa una figura nuova nel nostro ordinamento, quella del ministro per la Cooperazione internazionalee l' Integrazione. Idea in sé promettente. Anzitutto perché legando cooperazione e integrazione notifica che il sostegno allo sviluppo è insieme politica estera e politica interna, dal momento che milioni di persone provenienti dai Paesi cui prioritariamente si dovrebbe indirizzare la cooperazione abitano il nostro territorio e ambirebbero ad esservi maggiormente integrati. Cooperazione e integrazione come due facce della stessa medaglia. E come fattori della nostra strategia politica complessiva. Altrimenti gli "aiuti allo sviluppo" restano chiacchiera o elargizione a pioggia. Anzi a goccia, visto che nel 2012 ammontano allo 0,12% del pil, ciò che ci colloca agli ultimi gradini europei, fra Grecia e Slovenia. Quando le risorse sono tanto scarse, la frammentazione degli interventi pubblici, gestiti da una dozzina di attori istituzionali più o meno scoordinati, tra cui in primo luogo il ministero degli Esteri e quello dell' Economia, significa spreco, se non peggio. Infine, si prende atto che la cooperazione pubblica muove volumi nettamente inferiori alle iniziative private nel settore, agli investimenti, ai commerci e soprattutto alle rimesse degli emigranti, insomma ai vari fattori di sviluppo.E che dunque occorre almeno provare a coordinare le attività italiane in materia, statali o meno, obiettivo al centro del Forum indetto per settembre dal ministro per la Cooperazione e l' Integrazione, aperto a tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati (o sedicenti tali). Ma l' idea iniziale rischia di essere svuotata di senso perché mentre nomina Andrea Riccardi alla Cooperazione, Monti ne lascia la gestione all' omonima Direzione generale del ministero degli Esteri – o meglio all' ombra di se stessa. Il pasticcio è servito: abbiamo un ministro senza portafoglio che dovrebbe assicurare la regia politica della Cooperazione, la quale resta però nell' ambito di un altro ministero, dove non si perde peraltro occasione per sottrarre fondi alla relativa Dg in nome delle più varie emergenze. La Farnesina non intende cedere tale competenza. I nostri diplomatici osservano che avendo di fatto perso la politica europea, avocata a sé da Monti, rinunciare alla cooperazione finirebbe di svuotare di senso il loro lavoro. Da Largo Chigi, sede del neoministro, si oppone che agli Esteri resta comunque la responsabilità della nostra politica nel mondo. A rendere più incandescente lo scontro, il tentativo di far passare in tempi rapidi in parlamento una para-riforma della legge vigente (49/87), già ampiamente svuotata di efficacia e di senso, che si limita a restauri di facciata mentre incardina la Cooperazione alla Farnesina a titolo definitivo. La discussione approda alla commissione Esteri del Senato, dove Pd e Pdl vorrebbero accelerarei tempi, svuotando di senso il Forum di settembre. Del neoministro – e di altre innovazioni strutturali – nel progetto di riforma non v' è traccia. Ma allora perché inventarlo? E poi, ha senso che in una materia tanto strategica – cooperazione e ancor più integrazione – l' Italia debba avere un ministro ma non un ministero? Tale vicenda conferma il potere di interdizione delle burocraziee delle corporazioni nostrane, indisponibili a subire regìe politiche troppo invasive. Ma se la cooperazione dev' essere mera gestione corporativa di mance a pioggerellina, senza rapporto con l' integrazionee con una strategia politica al servizio dell' interesse nazionale – e senza coordinamento fra pubblico e privato – non serve né all' altrui sviluppo né tantomeno all' influenza dell' Italia nel mondo.
Fonte: www.repubblica.it
9 Luglio 2012