Il muro
Tavola della pace
I nuovi confini di Betlemme sono ridisegnati dal muro israeliano che circonda e blocca la città. Senza la possibilità di espandersi e crescere, Betlemme perde spazio, terreno e vivibilità.
Finiremo in una gabbia quando completeranno la costruzione del muro. Come gli animali. Non potremo più uscire. A parlare è George, giovane palestinese, studente di scienze politiche, con lo sguardo puntato sulla valle di Dayr Kirmizan ad ovest di Beit Jala, Betlemme.
Qui è previsto il passaggio della nuova sezione che circonderà la città della natività tagliandola fuori dalla strada per Gerusalemme e lasciando spazio ai due insediamenti israeliani di Gilo e Har Gilo di espandersi e congiungersi.
Da qui, da Betlemme, è partita la Missione di pace in Israele e Palestina, luogo emblematico del contrasto tra i due popoli, perché in terra palestinese, ma assediato dagli insediamenti israeliani, mentre il governo di Tel Aviv ridisegna i confini innalzando muri che tagliano la strada con la stessa facilità con cui si traccia un segno su una mappa. E se serve, si demoliscono case, si abbattono uliveti e si distrugge tutto quello che ne blocca il tragitto.
Nella mattinata di domenica, Ray Dolphin, esperto OCHA – Ufficio dell’Onu di Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati – ha messo sul tavolo i numeri di questa realtà. Nell’area amministrativa di Betlemme, Israele ha annesso tutta la parte nord del territorio di confine tra la città e Gerusalemme, oltre ad avere il controllo effettivo su oltre il 60% dell’area con 16 insediamenti che ospitano una popolazione di 86mila persone, lunghi tratti di muro, avamposti e check-point.
La vita per i 5mila profughi del campo di Aida, a ridosso del muro, è fatta di noia, ed attesa. La disoccupazione affligge quasi il 70% della popolazione. Chi può si arrangia con qualche bottega, o facendo il tassista, o cercando lavoro a Betlemme o a Beit Jala. Ma uscire è complicato, sia dal campo, sia dalla città. L’inedia della quotidianità schiaccia ogni iniziativa, trovare una via di fuga e un’opportunità è già un primo passo. Come Malek che studia fuori dal campo, in una scuola privata e spera di poter fare medicina seguendo le orme del fratello che studia in Egitto. Ma la sua è una famiglia fortunata. Per gli altri la possibilità di uscire non c’è, e l’unico sguardo sull’esterno è il centro di Alrowwad, che organizza corsi di inglese, di musica, e fa attività con i ragazzi e le ragazze che vivono qui. Qui si trova anche un centro di fitness per donne. Non un vezzo all’occidentale, ma una necessità per molte casalinghe che non escono mai dagli stretti confini del loro campo.
Perché per la maggior parte dei casi si sta qui tutta la giornata, con la frustrazione che diventa rabbia, passando con la macchina e sgommando tra le strette vie, o lanciando una bottiglia di vetro vuota contro un muro decrepito. Entrando e uscendo dalle case o aspettando i giornalisti e i turisti che vengono a cercare una storia, a scattare qualche foto, a conoscere, a voler vedere.
E il muro, che gira in modo irrazionale attorno a Betlemme, spezzando e confondendo, non si ferma ancora. Il nuovo tratto è già in previsione, approvato da Israele un anno fa, e taglierà gran parte della vallata di Dayr Kirmizan, devastando una zona suggestiva e ricca di olivi, facendo perdere le terre alla metà dei palestinesi che vive qui.
“E la comunità internazionale non fa nulla – continua George – parla, parla, ma nessuno interviene”.
La missione di pace passerà una settimana nei territori occupati, nei campi profughi palestinesi e negli insediamenti israeliani, nei villaggi occupati e nelle scuole, tra Betlemme, Haifa, Gerico e Gerusalemme, nei luoghi simbolo della pace, e della pace mancata.
Stefano Rossini