Il Libano scende in piazza per il terzo anniversario della morte di Hariri e il funerale di Mugniyeh
Erminia Calabrese
Nel giorno del terzo anniversario dell’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri, ucciso in un attentato dinamitardo sul lungomare della capitale, l’immagine di Beirut che scorre sulle televisioni locali è quella di una città che si ripete.
Le strade che portano al centro città di Beirut sono state invase da centinaia di automobili e autobus, numerosi i manifestanti che sin dalle prime ore dell’alba si sono raccolti in Piazza dei Martiri, dove giace la tomba di Hariri, e numerose sono anche le bandiere: quella libanese, ma anche quelle di partito, con (e non poche) bandiere americane e francesi che sventolano nella piazza. Ancora una volta le misure dell’esercito sono imponenti. Il centro città è presidiato da militari e carri armati. La sfilata dei vari leader del 14 marzo, schieramento di maggioranza, è iniziata così come i loro discorsi con un leit-motiv divenuto ormai scontato: Hariri, tribunale internazionale, Siria, Iran, armi di Hezbollah, indipendenza e sovranità. Dal palco hanno fatto a gara nel gridare che non ci sarà un’altra guerra civile mentre il presidente del partito Kataeb, falange libanesi, Amin Gemayel ha gridato: “voterò come presidente il generale Michel Aoun, no scusatemi volevo dire il generale Michel Sulmain”, trovandosi almeno per un secondo d’accordo con l’opposizione.
Il ministro dell’informazione Ghazi Aridi dichiara al quotidiano egiziano al-Ahram che “la situazione attuale è peggio di una guerra civile” e avverte che “se le istituzioni statali collassano il Libano andrà verso lo sconosciuto”. A rinsaldare tutto questo ci pensano i poster giganteschi che raffigurano Hariri e una frase: “Non prenderanno il nostro Libano”, riferendosi “ovviamente” alla Siria, come se fosse l’unica a voler mettere le mani sul paese. In tutti i villaggi sono stati organizzati dei servizi bus, destinazione piazza dei martiri, e un giorno festivo è stato dato ai lavoratori, ovviamente a quelli che hanno un datore di lavoro vicino alle forze 14 marzo. La tomba del martire Rafiq Hariri è stata decorata con piccoli fiori bianchi, la scenografia della tomba quella si sembra essere cambiata e la novità di quest’anno è anche un monumento inaugurato nei pressi dell’ hotel Saint-George, luogo dell’esplosione di tre anni fa. Lo scenario sembra perfetto per poter far rivivere quel 14 Febbraio 2005 giorno della Primavera di Beirut, quando dopo due settimane, il 28 febbraio, il governo Karame diede le dimissioni e quando la partenza delle truppe siriane dal paese cominciò per finalizzarsi, il 26 Aprile dello stesso, anno dopo 29 anni di presenza.
Quello stesso scenario stavolta non basta. Nelle zone del centro città un grande cartello recita: “Nel 2005 sei sceso in piazza per cacciarli. Nel 2008 devi fare lo stesso per non farli ritornare”. La gente a Beirut è stanca, stanca di tanto parlare, stanca della cosi chiamata “falsafa lubnaniyye”, “filosofia libanese”, cioè troppe parole e niente fatti, mentre il paese versa in una crisi che troppo spesso ricorda istanti della guerra civile. “Non sono sceso in piazza oggi anche se faccio parte di quel gruppo chiamato 14 Marzo, che senso ha scendere ancora e chiedere ancora le stesse cose?”, si chiede Joseph 33 anni, parrucchiere del quartiere di Asharafiyye. “Non scendo, resto a casa, oggi questa manifestazione serve soltanto a dividere ancora di più i libanesi”, dice Marwan, 44 anni di Beirut. Nell’altra parte di Beirut quella della periferia sud, ce n’è un’altra di manifestazione, che sicuramente non farà notizia sui media occidentali.
A Dahyye c’è un’altra parte di libanesi, che assiste ai funerali di Imad Mugniyeh, alto esponente del movimento sciita libanese Hezbollah, ucciso martedì notte a Damasco nell'esplosione di un'autobomba che il movimento stesso ha attribuito ad Israele. Qui oltre alle bandiere libanesi sventolano quelle nere di lutto del partito di Dio. A Dahyye nella “Sala dei martiri” nei discorsi dei politici, stavolta quelli d’opposizione, mentre si attende il discorso del segretario generale Hassan Nasrallah, il nemico diventa Israele e gli Stati Uniti. Due volti di una stessa città, di uno stesso paese. “Ne abbiamo abbastanza di queste commemorazioni come se Hariri fosse l’unico martire da commemorare. E gli altri duemila libanesi che pure son morti? Ridateci il San Valentino”, grida Rani. Più che una manifestazione per l’indipendenza e una commemorazione per “l’ultimo martire” quella di oggi è sembrata una vera e propria gara dei politici locali, e non solo, a dimostrare chi è più capace a trascinare gente in piazza.
Fonte: Peace Reporter
14 febbraio 2008