Il diritto all’istruzione in Medio Oriente attraverso le voci degli universitari palestinesi e israeliani
Floriana Lenti
Studiare e fare ricerca. Viaggio all’interno delle Università di Birzeit e Sderot.
Due tappe della Missione di pace in Medio Oriente hanno dato il quadro di quanto accade all’interno delle Università. Domenica 11 ottobre, un gruppo dei quattrocento italiani partecipanti al progetto Time For Resposibilities si sono diretti a Birzeit, presso il College, ed hanno ascoltato le voci degli studenti. Un edificio dalla struttura semplice, banchi scolastici, mura linde, tanti padiglioni, molte aule. Raccoglie otto Facoltà: ingegneria meccanica ed architettura, scienze, commercio, discipline umanistiche, legge che è la più recente, informatica, infermieristica. Sono attivi circa ventidue master. Attualmente è frequentata da 8.800 studenti, il 57% sono donne.
Questa Università di Birzeit svolge un ruolo sociale, raduna infatti undici istituzioni e organizzazioni. Ad illustrarla è stato Yassi Darwish, il coordinatore della comunicazione ed ha raccontato così la sua storia: “Non voglio parlare di quanto è accaduto a causa dell’occupazione, parlerò della mia esperienza: questa Università è stata chiusa per 15 volte dai militari israeliani. La chiusura più lunga è avvenuta tra il 1988 e il 1992, anni in cui ero matricola ed ho dovuto sospendere gli studi per 4 anni. Non c’è libertà di informazione, ma soprattutto non c’è libertà di movimento. La situazione è stata grave tra il 2000 e il 2003. Ai checkpoint gli studenti erano puniti collettivamente perché è stato considerato illegale unirsi in associazioni studentesche. L’obiettivo era fare un attacco al diritto all’istruzione. Negli anni ’80 c’erano studenti stranieri, adesso sono pochissimi. Oltre il 30% alloggia nel college perché uscendo dalla città rischia di non potervi rientrare. Per questo anno scolastico su 4000 studenti ne sono stati accettati solo 1500”. Le testimonianze dei ragazzi dell’Università hanno fatto emergere quanto sia difficile studiare e avere l’opportunità di radunarsi in associazioni studentesche perché vengono considerate azioni politiche e non sociali: “Spesso ci sono state incursioni all’interno del college da parte dei soldati israeliani, ci hanno perquisiti e “violentati” non solo a libello fisico, ma psicologico. Israele ha diritto di mandare qui i propri militari e se il documento ci viene timbrato non possiamo più muoverci. Ci dicono che si tratta di sicurezza, e quando non possono accedere all’interno dell’Università ci sparano dalla recinzione (con proiettili di metallo rivestiti di gomma) sparando gas lacrimogeni”. Dal 2004 è stato negato agli studenti di Gaza di frequentare il College di Birzeit, quelli che già erano all’Università non sono più potuti tornare nella loro terra; alcuni sono qui, altri si sono laureati, altri ancora erano stati nascosti dai cittadini di Birzeit e sono stati cercati e arrestati, poi riportati definitivamente a Gaza. Dopo l’occupazione è cambiata la condizione demografica. Gli studenti di Gerusalemme sono diminuiti. Gli studenti internazionali, così come gli insegnati sono diminuiti, non riescono ad avere il visto, vanno e vengono ogni sei mesi e spesso non tornano…
“Attualmente, racconta Anon Quzmar, ci sono 88 studenti tenuti in custodia illegalmente. 24 sono stati condannati. 8 ancora stanno scontando una pena. La sentenza che reputa illegali le associazioni studentesche è frutto di una legge coloniale inglese. A causa di essa il palestinese che ha passato più tempo in stato di arresto è un ragazzo ancora detenuto da undici anni. L’ultima moda dei soldati israeliani e quella di non restituire, dopo l’arresto, la carta d’indentità verde palestinese ed essere rilasciati a Hebron dove poi si devono attraversare troppi checkpoint, mettendo a rischio la vita dei ragazzi”.
Quello che si respira a Birzeit, nel College, tra i giovani è una forte determinazione, voglia di non rinunciare al diritto allo studio, e speranza di rinascita: lo dimostrano i sacrifici che quotidianamente gli studenti sono disposti a fare per poter andare a frequentare le lezioni.
Ieri lunedì 12 ottobre, una delegazione di oltre 50 persone ha potuto visitare la più grande Università di Sderot. E’ un edificio periferico, curato, all’avanguardia, con banchi ampi, sedie piegabili e comode. Con Eric Yellin, Presidente di The Other Voice, e Julia Chaitin, del Social Work Department che hanno fatto da guide è emerso quanto sia frequentato questo college. Sono nate associazioni per la pace e ci sono regole differenti rispetto agli altri luoghi di studio. Sono due le possibilità per superare gli esami finali. Julia Chaitin ha spiegato: “Da parte palestinese c’è stato un boicottaggio culturale nei confronti dei nostri piani di ricerca. Stiamo organizzando una conferenza con palestinesi e israeliani per capire come possiamo insieme creare un percorso di ricerca e studio. L’obiettivo non è solo fare ricerca, ma anche lavorare accanto a Ong e accanto alle famiglie delle vittime. Il muro è invisibile per noi israeliani, i palestinesi lo vedono e lo vivono come un limite. Gli ebrei sono stati abituati a vivere nei ghetti, dunque, percepite il muro come una forma di sicurezza può essere normale, e la sicurezza non è tanto quella fisica quanto quella psicologica. Il muro per gli ebrei israeliani è invisibile come lo sono i palestinesi; questo accade quando due popoli non si riconoscono, dunque diventano invisibili e si vedono solo gli stereotipi”.
Un dato rilevante emerso dalle testimonianze all’interno dell’Università di Sderot è che la teoria predominante mette al centro la politica, è dappertutto, non si può scindere dal personale “Quando la gente incontra l’altra gente dovrebbe essere felice, dovrebbe andare d’accordo a pelle; ma le questioni politiche sono predominanti- ha continuato la referente del Social Work Department -. Sono comunque dell’idea che si deve parlare per fare la pace e si può realizzare solo insieme e con il dialogo”.