Il business delle armi. Qui la crisi non c’è
Massimo Solani
La crisi non abita da queste parti. Anzi, il mercato italiano delle armi da guerra è in salute come mai prima d’ora…
Una montagna di soldi che nel 2008 è finita nelle casse delle aziende produttrici e della banche che hanno “ospitato” le transazioni finanziarie fra i produttori e clienti. E in tempi di crisi e di pace, almeno ufficiale, il dato elaborato nelle scorse settimane dal ministero dell’Economia è ancora più sorprendente: +222% nel 2008, per un volume d’affari che ha superato quota 4,2 miliardi di euro contro l’1,3 del 2007.
Decisa anche l’impennata delle esportazioni autorizzate, che nel 2008 sono salite a quota 3,7 miliardi di euro contro l’1,2 dell’anno precedente. Numeri che la direzione quinta del dipartimento del Tesoro, l’ufficio per la prevenzione dei reati finanziari, ha trasmesso nei giorni scorsi alla Presidenza del Consiglio e che Palazzo Chigi ha inserito nel paragrafo 2.4 del rapporto «sui lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento».
E a monte dell’incremento del volume d’affari, secondo i dati del Mef, c’è l’aumento delle autorizzazioni concesse nel 2008 agli istituti bancari per le transazioni economiche: 1612 contro le 880 del 2007. Anche per questo nel rapporto, Palazzo Chigi ha sottolineato con soddisfazione che «l’industria italiana per la difesa ha, quindi, consolidato e incrementato la propria presenza sul mercato globale dei materiali per la sicurezza e difesa». E nel 2008 sono stati proprio i paesi Ue e Osce i partner principali d’affari delle aziende italiane (il 63,6%), che hanno fatto però affari d’oro anche in Asia (19% degli scambi) e Medioriente (4,3%).
Preoccupa, invece, che quasi il 4% delle esportazioni di armi da guerra prodotte dalle industrie italiane sia finito nei paesi dell’Africa dove sempre più spesso sono in corso sanguinosissimi conflitti armati mai dichiarati e sistematicamente ignorati dai media e dai governi occidentali. Fra i paesi extra Ue maggiori destinatari delle armi italiane ci sono la Turchia, la Libia e l’Algeria. E ancora: Nigeria, Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati Arabi e Venezuela. Fra le aziende per cui il 2008 è stato un anno particolarmente fortunato in termini di transazioni finanziarie concluse, c’è la Agusta (della galassia Finmeccanica) che da sola ha coperto il 37,2% del mercato, contro il 9,48% del 2007.
Un aumento generato soprattutto da un importante accordo con la Turchia per la fornitura di elicotteri “da combattimento”. Seconda nella lista la “Fincantieri Cantieri navali italiani” che ha coperto il 7% del mercato italiano degli armamenti. Di poco inferiore la fetta coperta dalla Oto Melara (azienda del consorzio Iveco Fiat-Oto Melara, controllata da Finmeccanica, produce soprattutto carri armati e mezzi cingolati) che nel 2008 è salita a quota 6,9% contro il 3,8% dell’anno precedente. Ma un mercato così florido non è stato una manna dal cielo soltanto per le aziende produttrici.
Una montagna di soldi, infatti, è circolata anche sui conti correnti di buona parte delle banche che operano in Italia, con evidenti guadagni anche per gli stessi istituti di credito che finanziano l’esportazione. Fra questi, nel 2008, è stata la Bnl a coprire una importante quota del mercato delle transazioni fra aziende e “clienti”: è del 33,8% la fetta raccolta dalla banca entrata nella galassia Bnp Paribas, contro il 5,21% dell’anno precedente. Stabile la Deutsche Bank (14,03%) seguita dalla Societe Generale, la seconda banca francese la nona in Europa per capitalizzazione, con l’11,4%. Segnalate nel rapporto anche le quote di mercato coperte da Intesa San Paolo (4,79%), Banco di Brescia (4,7%) Citybank (3,7%) e Cassa di Risparmio di La Spezia (2,36%). Dati questi che il ministero dell’Economia e la Presidenza del Consiglio sono obbligati a fornire in virtù di quanto previsto dalla legge 185/90.
Un testo che individua la procedura necessaria per ogni compravendita di armamenti e che soltanto in parte riesce a fare chiarezza in un mercato troppo spesso fatto di ombre. Prima di iniziare le trattative per un qualsiasi contratto, infatti, le aziende che fabbricano armi da guerra sono obbligate a chiedere l’autorizzazione al ministero degli Esteri (nel caso si tratti di merci) o allo Stato Maggiore della Difesa (per la cessione di servizi). Ottenuto il nulla osta alla trattativa contrattuale, prima della chiusura dell’accordo, le aziende contattano gli istituti di credito che forniranno i conti corrente per la transazione. Il luogo fisico, cioè, dove transitano i soldi per il pagamento. E sono le banche a chiedere l’autorizzazione al Ministero dell’Economia per la chiusura della procedura di incasso.
Per questo ogni anno, dal 2006 ad oggi, è la direzione prevenzione dei reati finanziari a redigere le statistiche che poi confluiscono nel rapporto annuale della Presidenza del Consiglio. Che nei giorni scorsi, attraverso l’ufficio del Consigliere Militare di Palazzo Chigi, ha incontrato i rappresentanti delle Ong interessate al controllo delle esportazioni e dei trasferimenti dei materiali d’armamento ribadendo il proprio «sforzo per continuare il dialogo con la finalità di favorire una più puntuale e trasparente informazione nei temi d’interesse». Uno sforzo che però rischia di infrangersi sugli scogli nascosti nelle zone grigie di una materia che spesso sfugge ai controlli ufficiali e solletica l’appetito di faccendieri senza scrupoli e interessi che nulla hanno a che vedere con l’etica.
E non è un caso se, come scrive palazzo Chigi nel rapporto, nel 2008 «sono state autorizzate transazioni bancarie relative a pagamenti per compensi di intermediazione, riferite alle sole esportazioni definitive, per un totale di circa 66,72 milioni di euro contro i 21,1 del 2007». Affari d’oro, quindi, anche per intermediari senza nome che non sono in nessun modo monitorati dalle autorità. Del resto anche il ministero dell’Economia, nel trasmettere i propri dati a Palazzo Chigi ha messo nero su bianco l’incapacità del Mef di controllare l’entità dell’attività di credito concessa dalle banche alle ditte al di fuori delle autorizzazioni ufficiali alle transazioni. Ma c’è di più: il governo, infatti, sta recependo le nuove norme decise dall’Unione Europea che di fatto sottraggono al controllo preventivo del ministero dell’Economia qualsiasi transazione di mercato interna alla Ue. Ossia la stragrande maggioranza del volume d’affari delle aziende d’armamento italiane (nel 2008 il 63,6%). «E basterà una semplice triangolazione fra paesi membri – spiega un tecnico – perché intere partite escano dal controllo ufficiale inghiottite dal buio».
Fonte: l'Unità
09 aprile 2009