I privati della terra
Stefano Liberti
La corsa alle terre d’Etiopia è il fenomeno che coinvolge tutta l’Africa. Dopo l’impennata dei costi dei beni alimentari e i moti per la fame del 2007-2008 la terra è la merce più ricercata.
I pomodori sono rossi, maturi al punto giusto. Raggruppati in mazzetti da cinque, pendono da piante che crescono rigogliose all'interno di una serra ad altissima tecnologia: sistema d'irrigazione computerizzato, semi importati dall'Olanda, fertilizzanti di ultima generazione e una produzione da record. Benvenuti alla commercial farm di Awassa, nel cuore della Rift Valley etiopica, «la fattoria industriale più all'avanguardia di tutta l'Africa», come dice con orgoglio e una punta d'esagerazione il manager Gelata Bijiga. Mille ettari di terreno, otto serre in cui cresce di tutto – dai pomodori alle melanzane, dalle zucchine ai peperoni – e un mercato in rapida crescita. Gli ortaggi raccolti vengono inscatolati, messi in una cella frigorifera e trasportati in camion ad Addis Abeba. Qui saranno caricati su vari aerei diretti in Medio Oriente, pronti per essere serviti nei ristoranti di Dubai, Gedda o Abu Dhabi. «In 24 ore possiamo fare arrivare i nostri prodotti dal campo al consumatore nel Golfo», sottolinea il manager.
Tre milioni di ettari
Le otto serre sono solo la fase numero uno di un progetto in continua espansione. Nei prossimi mesi ne metteranno in piedi altre otto. E poi altre ancora. La Jittu Horticulture, la ditta per cui lavora Gelata, è diretta dall'agronomo olandese Jan Prinz e ha grandi piani per il futuro. È una delle beneficiarie del piano di concessione delle terre agli investitori stranieri lanciato dal governo etiopico negli ultimi tre anni. Un piano che ha raccolto adesioni entusiastiche tra gruppi provenienti da tutto il mondo, accorsi in massa nel paese del Corno d'Africa per acquisire aree su cui produrre su larga scala. Coltivano di tutto: riso, tè, ortaggi, cereali, canna da zucchero, oltre che diverse culture destinate ai cosiddetti agro-carburanti, dalla jatropha alla palma da olio. Sono sauditi, indiani, brasiliani, ma anche europei. Hanno colto al volo l'occasione offerta dal governo di Addis Abeba, che sul sito web della «Ethiopian investment agency» pubblicizza l'offerta nel seguente modo: «Una forza lavoro a basso costo, grandi possibilità di produzione, terra a prezzi contenutissimi». Fino ad oggi, sono state allocati circa un milione di ettari. Il piano prevede l'assegnazione nei prossimi anni di un totale di 3 milioni di ettari. Il costo del canone d'affitto è stracciato. Varia tra i 100 e i 400 birr all'ettaro (dai 6 ai 25 euro), a seconda della qualità del terreno e della posizione. A Gambella, regione remota al confine con il Sud Sudan, l'affitto è di appena 15 birr all'ettaro (80 centesimi di euro). Se si considera poi che il salario medio giornaliero in agricoltura è di 9 birr (60 centesimi di euro) al giorno, si capisce perché gli investitori si sono lanciati in massa su questa gallina dalle uova d'oro.
Gli Stati del Golfo e la Libia
La corsa alle terre etiopiche è solo la punta più visibile di un fenomeno che sta interessando negli ultimi tempi gran parte dell'Africa. Dopo l'impennata dei costi delle materie prime alimentari e i moti per la fame del 2007-2008, che hanno infiammato decine di paesi del sud del mondo, la terra è diventata una merce ricercata. Paesi con grandi liquidità ma con scarsa disponibilità di aree coltivabili – come gli stati del Golfo o la Libia – oltre che gruppi privati a caccia di investimenti a basso rischio e ad alto rendimento si sono gettati nella mischia per garantirsi facili guadagni o una sovranità alimentare che non potevano avere producendo in casa. Tanto per fare un esempio, dopo che il prezzo del riso è schizzato alle stelle nel 2008, il re Abdullah ha lanciato l'«Initiative for Saudi Agricultural Investment Abroad», un fondo pubblico di 5,3 miliardi di dollari che fornisce prestiti a ditte saudite interessate a realizzare investimenti in paesi stranieri dall'elevato potenziale agricolo.
Il Land grabbing («l'accaparramento delle terre») è ormai un fenomeno globale, che coinvolge vari paesi africani, oltre che alcune parti dell'America latina, dell'Asia e dell'Europa centrale. Ha avuto risonanze e sviluppi diversi a seconda delle latitudini. In Madagascar, la notizia della concessione della metà delle terre coltivabili per 99 anni alla ditta coreana Daewoo ha scatenato la rabbia popolare e innescato una rivolta che ha portato alla destituzione dell'impopolare presidente Marc Ravalomanana e alla cancellazione dell'accordo. In Etiopia, le reazioni sono meno violente. Non foss'altro perché il premier Meles Zenawi non tollera particolarmente il dissenso. «Spesso gli accordi sono discussi in segreto. È il governo a decidere a chi affittare le terre e per quanto tempo. Non c'è nessuna gara d'appalto, nessun coinvolgimento delle comunità locali che magari hanno usato quelle terre per centinaia di anni. In alcuni casi, coltivatori o pastori sono stati espulsi dai loro campi perché questi erano stati assegnati a qualche investitore straniero», tuona Bulcha Demeksa, presidente dell'Oromo Federal Democratic Movement (Ofdm), un partito d'opposizione.
Così il governo ci guadagna
Da una stanzetta priva di elettricità nella sede della sua organizzazione, questo anziano ex banchiere denuncia la concessione delle aree coltivabili a scopo politico. «Dando le terre a prezzi stracciati a gruppi legati a stati stranieri, il governo si garantisce ottimi appoggi a livello internazionale». Il riferimento, neanche troppo velato, è a una persona considerata ad Addis Abeba quasi più potente dello stesso Zenawi: Mohammed Hussein Al Amoudi. Nato da madre etiope e da padre yemenita, questo sceicco naturalizzato saudita è uno dei 50 uomini più ricchi del mondo, secondo la rivista Forbes. Molto vicino al re Abdallah, ha creato un vero e proprio impero in Etiopia attraverso il suo consorzio Midroc, che gestisce industrie, hotel, ospedali, centri commerciali. Negli ultimi due anni ha raccolto l'invito del re a investire nell'agricoltura all'estero e si è lanciato anche in questo settore. Al Hamoudi controlla direttamente tre fattorie in Etiopia. Ha avuto in gestione 10mila ettari di terra a Gambella, dove produce riso da esportare in Arabia saudita. La stessa Jittu Horticulture di Awassa è una compagnia-sorella di Midroc. Formalmente indipendente, ha avuto il terreno in concessione dallo sceicco, che a sua volta lo aveva avuto in affitto dal governo. Stato proprietario, accordi nascosti
Perché in Etiopia l'unico proprietario delle terre è lo stato. Arrivato al potere nel 1991 dopo aver rovesciato il «dittatore rosso» Menghistu Haile Mariam, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf) ha mantenuto lo stesso regime di controllo delle terre che c'era durante il regime del Derg. È lo stato che concede le aree coltivabili sia ai contadini che ai grandi investitori. Ma in che modo e a chi viene garantito l'accesso a quello che appare come un investimento dall'elevato rendimento? «Decidiamo a chi rivolgerci sulla base dell'esperienza che ha nel settore», spiega Esayas Kebede, direttore della «Agenzia per gli investimenti» del ministero dell'agricoltura e dello sviluppo rurale, fondata poco più di un anno fa proprio per favorire il raccordo tra il governo e i potenziali investitori. Seduto su un divano in una stanza dai muri tappezzati di mappe con le aree in concessione, l'uomo illustra i punti cardine della politica di affitto delle terre, «volta a modernizzare un settore agricolo troppo antiquato». Sottolinea come dei 74 milioni di ettari di terreno coltivabile in Etiopia, ne è stato messo a disposizione degli investitori appena il 4%. E argomenta che l'Etiopia ha la terra, la manodopera, ma non il capitale necessario per far fruttare le due cose. Sostiene che ogni area viene concessa con l'accordo dei governi regionali, che mettono a disposizione solo i terreni inutilizzati. Ma non specifica che tutti i governi regionali sono controllati dall'Eprdf e che le comunità locali hanno poca o nessuna voce in capitolo. Annientata la società civile mediante un'oculata e capillare politica repressiva, nessuno all'interno del paese osa trattare apertamente un tema considerato «estremamente sensibile», come sussurra il membro di un'organizzazione ambientalista che preferisce non essere citato. «Spesso veniamo a conoscenza degli accordi di affitto a gruppi esteri dalla stampa internazionale», sospira Bulcha Demeksa.
Kebede respinge le accuse ma non riesce a spiegare la contraddizione intrinseca di un paese che vive di aiuti alimentari e affitta le proprie terre a gruppi che producono per esportare all'estero. «Non possiamo chiuderci al mercato globale e abbiamo urgente bisogno di valuta forte. Quella in cui ci siamo lanciati è una grande avventura che porterà alla modernizzazione del settore agricolo». A 300 chilometri da lì, nella fattoria ultra-moderna di Awassa i contadini impegnati a raccogliere per nove birr al giorno i pomodori che finiranno sui piatti dei ristoranti chic del Golfo persico, si staranno probabilmente chiedendo che ruolo hanno loro in questa avventura.
Fonte: il Manifesto
7 giugno 2010