I pericoli della No Fly Zone
Emanuele Giordana - Lettera22
Non è la No fly Zone la soluzione di cui al Libia ha bisogno. La storia recente dovrebbe averci insegnato che la via militare non solo è l’ultima chance cui si deve ricorrere ma che è anzi la peggiore delle soluzioni.
A metà degli anni Novanta l'Onu vietò lo spazio aereo sopra la Bosnia senza riuscire però a evitare la mattanza di Srebrenica o lo stillicidio di Sarajevo. Agli inizi di quel decennio invece, una coalizione di volenterosi, che allora non si chiamava ancora così, aveva deciso, in barba all'Onu che definì “illegale” quella scelta, di imporre una no fly zone sui cieli dell'Irak. Stati uniti, Gran Bretagna e Francia (che nel 1998 si ritirò dalla missione) ottennero qualche effetto nella protezione dei curdi nel Nord del Paese, ma non riuscirono a impedire le stragi di sciiti che Saddam Hussein aveva ordinato nel Sud agli squadroni di elicotteri che, volando bassi, sfuggivano ai radar nemici perseguendo senza difficoltà i propri obiettivi. La no fly zone sull'Irak, infine, fu l'anticamera della guerra più nefasta che l'inizio di questo secolo abbia visto.
Se l'esperienza insegna qualcosa bisognerebbe dunque pensarci due volte, come per fortuna Stati uniti e Europa stanno facendo, prima di fare un passo pericoloso come l'istituzione di una no fly zone. Tecnicamente impedire il sorvolo dei cieli libici ai caccia del rais può apparire come una scelta “umanitaria” tesa a impedire un possibile massacro di civili. Ma di fatto è una dichiarazione di guerra e prelude a veri e propri atti di guerra come sono le azioni di intercettazione e abbattimento dei velivoli posti sotto tutela. Gli atti bellici spingono di solito ad altri atti bellici e a un'esibizione muscolare che tende a trasferirsi dal cielo alla terra con conseguente invio di truppe. Preludio insomma a un'ennesima palude in cui, per evitare una strage di civili, si prepara in grande stile la loro futura e certa morte per mano amica.
La prudenza di queste ore è dettata da diversi fattori: la Francia e la Lega araba temono un'azione della Nato (di fatto l'unica forza militare in grado di imporre una no fly zone) per l'ovvia reazione che scatenerebbe nel mondo arabo musulmano. L'America teme un impegno che, più o meno unilaterale, potrebbe trascinare Washington in un ennesimo Afghanistan, cosa che Obama vorrebbe evitare tanto quanto i suoi concittadini ormai scottati dall'interventismo neocon. Infine, qualche mente meno bellicosa e più ponderata immagina forse che le armi della diplomazia e del negoziato siano ancora tutte da esperire nel caos libico.
Ovviamente stare con le mani in mano non porta a nulla né si può immagine che il rais libico possa cedere il passo, cosa che tutti auspicano, senza che una forma di deterrenza militare gli stia col fiato sul collo. Il blocco navale e il blocco aereo ai confini libici sono azioni di carattere militare (non umanitarie, come sono state definite in queste ore) che possono avere due effetti importanti: tenere alta la pressione su Tripoli e impedire l'accesso di uomini e armi alle armate del colonnello (anche se va comunque prevista l'apertura di corridoi, questi sì davvero umanitari, che consentano la protezione dei civili, la loro evacuazione o le garanzie necessarie a evitare che paghino l'effetto di sanzioni che, volendo colpire il rais – impedendo ad esempio l'arrivo di cibo o medicine – punirebbe invece gli incolpevoli cittadini libici). Nel contempo una forte azione diplomatica, nutrita dalla continua attenzione alla popolazione civile, dovrebbe negoziare l'uscita di scena del rais. Azione che andrebbe coadiuvata dal riconoscimento del Consiglio nazionale di transizione come l'interlocutore ineludibile per cercare una via d'uscita: atto politico forte, a patto che avvenga da parte della comunità intenzionale e non, come sta accadendo, in ordine sparso. Potrebbe essere per Gheddafi il segnale definitivo del suo isolamento e dunque la chiusura dell'ultima finestra che ancora gli consente di giocare qualche carta.
Non è la no fly zone la soluzione di cui al Libia ha bisogno. La storia recente dovrebbe averci insegnato che la via militare non solo è l'ultima chance cui si deve ricorrere ma che è anzi la peggiore delle soluzioni. Quella che, a piccoli passi e con uno stillicidio quotidiano pagato dai civili che vorremmo difendere, potrebbe portare l'ennesimo conflitto anche sulle sponde del Mediterraneo.
Fonte: www.lettera22.it
10 Marzo 2011