I Lineamenta e la società africana: un’analisi zoppa


Padre Renato Kizito Sesana


"Nel documento preparatorio al Sinodo mancano un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e un serio esame della situazione presente. Il pericolo è che da valutazioni generiche non potranno che scaturire visioni e proposte altrettanto generiche e inefficaci".


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I Lineamenta e la società africana: un’analisi zoppa

Il primo capitolo dei Lineamenta per il prossimo Sinodo africano – “L’Africa all’alba del 21° secolo” – è forse il più debole dell’intero documento. L’analisi proposta della situazione dell’Africa odierna elenca “alcune evoluzioni positive” (6-7) e “alcuni sviluppi negativi” (8) avvenuti dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa (1995), identifica “alcune priorità a livello socio-politico, socio-economico e socio-culturale” (10-23), esamina il ruolo che le religioni tradizionali africane, l’islam e le altre denominazioni cristiane possono dare “al servizio della riconciliazione, della pace e della giustizia in Africa” (24-29), e conclude con alcune impegnative domande e un primo abbozzo di risposta.

Nel capitolo ci sono 20 note di riferimento: 6 a discorsi e documenti papali, 11 ai Lineamenta, all’Instrumentum laboris e documento finale del primo sinodo, 1 al sito Internet del Symposium delle conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam), 1 all’annuario statistico della chiesa e 1 alla beata Elisabetta della Trinità, suora e mistica francese morta all’inizio del secolo scorso.

Tutto il capitolo è una enumerazione ragionata di fatti e di grandi tendenze, senza, però, un vero tentativo d’interpretazione. Un mero elenco – neppure esaustivo – che potrebbe essere fatto senza difficoltà da un giornalista mediamente competente sui fatti africani. Sorprende la totale assenza di voci che non siano strettamente ecclesiastiche. Ed è su questo elenco di fatti e autocitazioni che sono sviluppate le prospettive teologiche dei capitoli successivi.

Se si vuole fare teologia e suggerire proposte di programmi pastorali che incidano, è necessaria un’attenta analisi della società africana odierna. Un sinodo, del resto, intende un momento di autocomprensione e di presa di coscienza delle situazioni di un dato momento in vista di un maggiore impegno nel futuro. In caso contrario, si rischia – come è successo con il primo sinodo – di produrre un documento finale che non sa provocare veri cambiamenti.

Un’approfondita valutazione dell’impatto che il primo sinodo ha avuto sulla vita delle chiesa e una seria analisi della situazione presente non sembrano essere state fra le priorità degli estensori dei nuovi Lineamenta. Forse questi hanno voluto lasciare il compito al sinodo stesso. Ma l’esperienza di simili precedenti assisi induce a dubitare che un lavoro del genere possa essere fatto in aula. Sta di fatto che da analisi generiche non potranno che scaturire visioni e proposte generiche e inefficaci.

Il successo della teologia della liberazione in America Latina è dovuto al fatto che essa è nata e fiorita da un’analisi della società ampiamente condivisa da comunità cristiane, congregazioni religiose e vescovi. Insomma, una riflessione con profonde radici nel popolo cristiano.

In Africa, invece, un’analisi della società e dei problemi odierni non è stata ancora proposta, tanto meno condivisa. Se si parla con i cristiani del Sud Sudan – da poco usciti da una guerra civile, ma tuttora a rischio di ricaderci – sorprende notare come la loro analisi socio-politica si rifà esclusivamente alle posizioni dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla) o di altri partiti. Non sono ancora capaci di formulare una propria visione della società che sia influenzata dalla fede cristiana: il messaggio evangelico viene “tirato in ballo” come cappello finale, senza alcuna efficacia storica.

La stessa cosa è balzata agli occhi durante la recente crisi del Kenya. In interviste alla radio si sono udite allucinanti dichiarazioni di cristiani: ammettevano di aver preso parte all’uccisione di persone o di aver bruciato le case di vicini per costringerli ad andarsene, affermavano di essere pentiti, ma s’affrettavano ad aggiungere che avrebbero rifatto le stesse cose se i vicini fossero tornati. La maggioranza dei cristiani kenyani è stata vittima di una esasperata interpretazione tribalistica dei fatti: non hanno capito che tale interpretazione nascondeva una sporca guerra per il potere economico delle due parti in causa, né la presenza di forze esterne, guidate da interessi particolaristici. Un tragico scollamento fra vita e fede, questa seconda intesa solo come guida per opzioni morali personali.

Il sta proprio nella mancanza di un’analisi sociale e di un “giudizio” cristiano condiviso sulla storia presente. Gli stessi leader religiosi spesso sembrano incapaci di vedere al di là del proprio angolino di mondo, troppo coinvolti nella loro piccola realtà tribale: avere una nipote che ha sposato un certo uomo politico può significare la possibilità di scorciatoie nelle pratiche burocratiche, non ricusando forme di corruzione (magari non a livello di mazzette, ma di scambi di favori e di silenzi colpevoli).

Se riteniamo indispensabile una presenza cristiana nel campo sociale, allora è necessario far crescere la consapevolezza dei problemi, delle ingiustizie, delle forze che sfruttano l’Africa solo come campo di battaglia.

In un recentissimo saggio, che ha il pregio di tentare di capire le ragioni delle guerre africane (L’Africa in guerra – I conflitti africani e la globalizzazione, Baldini Castoldi Dalai Ed., Milano, 2008), Alberto Sciortino scrive: «Le guerre africane, se non ci si vuole fermare agli aspetti apparenti e superficiali, sono interpretabili a tre livelli. Un primo livello è quello della lotta per la conquista del potere all’interno del ceto politico continentale: in questo senso la grande diffusione della conflittualità e della corruzione tra le classi dirigenti sono due aspetti degli stessi processi. Un secondo livello è quello del controllo dello sfruttamento delle risorse, spesso illegale anche se praticato dai governi: questo sistema economico implica la guerra come suo elemento costitutivo (…) modifica a proprio vantaggio l’intera struttura produttiva delle aree interessare e crea nuovi equilibri sociali che tendono a perpetuare i conflitti. Il terzo livello è quello degli interessi strategici delle potenze nel quadro dell’economia globalizzata, a cominciare dalla contesa per le risorse energetiche».

È solo un esempio – più o meno condivisibile – di un tentativo di capire. Sarebbe importante che il prossimo sinodo, dedicato non solo alla riconciliazione, ma anche alla giustizia e alla pace, ci regalasse una visione condivisa di quello che sta succedendo in Africa e di come potremmo reagire come cristiani. Se è troppo chiedere questo, si potrebbe almeno cominciare a muoverci in quella direzione, avviando un processo che renda i cristiani africani attori più informati e consapevoli della storia odierna.

Fonte: Blog di Padre Renato Kizito Sesana

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