I libici in Italia: arrestate il Raìs


Famiglia Cristiana


Siamo stati in una casa di accoglienza a Roma e in un centro Caritas in Campania. E tutti sperano di festeggiare la fine del Ramadan con la notizia di una Libia libera da Gheddafi. Dossier a cura di Pino Pignatta.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
I libici in Italia: arrestate il Raìs

La storia di Fathi, 20 anni, imbarcato a forza da Tripoli su una carretta del mare

Fathi Ayachi, 20 anni, scuote la testa e risponde secco: «Rientrare in una Libia libera da Gheddafi? No, non voglio più tornare, almeno per ora, anche se io e il mio popolo crediamo in una futura democrazia». È troppo presto per parlare di ciò che verrà, non solo per l’assetto politico-economico che avrà il suo Paese ma anche per la sua vita. Fino al 12 agosto Fathi lavorava come barbiere a Tripoli, dove è nato, ed è in Italia per volere delle milizie di Gheddafi. Confida: «Sono giovane e quella che provo in questo momento è solo confusione».

Lo hanno costretto a imbarcarsi con altre 400 persone su una “carretta del mare”. Racconta: «Nel vostro Paese ci sarei ugualmente venuto, ma non rischiando la vita. Con me quella notte, sulla banchina del porto di Tripoli, c’erano altre cinquemila persone, tutte in attesa dello stesso destino. Quando la barca si è riempita fino all’estremo, abbiamo fatto in tempo ad allontanarci di poche centinaia di metri. Poi i miliziani hanno iniziato a spararci contro. Lo fanno sempre, è un avvertimento per intimarci di non tornare indietro. Da quando c’è la guerra è così, ci mandano via in massa per danneggiare il Governo italiano».

Anche se ora per lui l’incertezza è la regola, sa che vuole chiudere con il passato, chiudere con l’Africa, anche se è lì che ha lasciato la famiglia: madre e due fratelli più piccoli, 15 e 16 anni, hanno trovato riparo in Tunisia. Suo padre è morto di infarto molto prima della guerra. «Almeno lì i miei fratelli potranno finalmente studiare, quello che voglio fare anch’io, voglio imparare l’italiano». In Libia – circa sei milioni di abitanti, due dei quali composti da profughi subsahariani impiegati in particolare nel settore della meccanica – l'istruzione è praticamente negata. Il flusso migratorio straordinario di nigeriani e camerunensi sulle coste italiane si deve anche alla condizione di lavoratori specializzati in fuga. In Libia il tasso di formazione scolastica si ferma al 5%.

Da sinistra: Raouf, l'interprete del centro di accoglienza di Sicignano degli Alburni in provincia di Salerno, e Fathi Ayachi (foto: Romina Rosolia).

«A Tripoli non ho più nulla, ho lasciato solo il cuore»

Un’istruzione negata dal regime e sostituita dal paliativo del Koutayeb, la cosiddetta “Carta verde” che garantisce a tutti di poter acquistare gratis nafta, benzina, indumenti, alimenti, elettrodomestici, con l’unica eccezione delle automobili, cedute versando soltanto il 15 per cento del prezzo imposto. Fathi lavorava come barbiere, ma avrebbe potuto farne a meno. «Il cittadino libico non lavora perché Gheddafi lo ha assuefatto all’assistenzialismo, è così che il Raìs ha comprato il nostro silenzio e la nostra obbedienza. Inoltre, al compimento del ventesimo anno di età tutti i ragazzi ottengono dallo Stato circa 100 dollari al mese, i capi famiglia invece 500.

È così che in Libia si è andati avanti finora. La “Carta verde” esiste ancora ma con quella ormai si può comprare solo il gasolio. Gheddafi ci ha tolto tutto. A Tripoli non ho più nulla, nemmeno la mia casa, rasa al suolo dai bombardamenti. Là ho lasciato solo il cuore». Per un attimo Fathi torna indietro nel racconto della sua vita in Libia: «Non ho mai studiato anche se so scrivere e leggere arabo e parlare il francese. L’ho imparato dalle persone che ho incontrato nella vita, un’amica, un familiare, mia madre. Ora voglio recuperare, voglio imparare l’italiano ma soprattutto voglio regolarizzarmi con il vostro Paese».

Fathi, che come cittadino libico avrà sicuramente il permesso provvisorio di rifugiato politico, ripercorre i passaggi del suo arrivo in Italia. «Sono qui dal 14 agosto, dopo due giorni di traversata di mare. Sono arrivato a Lampedusa che neanche credevo di vedere e toccare terra. Dalla Sicilia mi hanno poi spostato qui, nel centro di Sicignano, da poco meno di una settimana. E ora ho bisogno di riflettere, capire, ambientarmi. Anche se su un messaggio non ho dubbi: arrestate Gheddafi».

La speranze di un giovane libico tra gli altri migranti africani

L’abitazione provvisoria di Fathi, il giovane libico fuggito da Tripoli e sbarcato a Lampedusa due settimane fa,  è un albergo. Si chiama “Park Hotel” e si trova all’uscita dell’autostrada di un comune a Sud di Salerno, Sicignano degli Alburni. Trenta stanze per 109 migranti africani. Convivono insieme 17 nazionalità. Le regole per una convivenza pacifica fra musulmani e cristiani sono racchiuse qui, nel centro gestito dalla Caritas Diocesana di Teggiano Policastro per conto della Protezione civile nazionale che ha preso in mano l’emergenza sbarchi. Costo giornaliero per ognuno di loro: 46 euro. Ai 109 si aggiungono altri 52 migranti, uomini, donne e bambini non accompagnati, accolti nel vicino comune di Sanza, nell'albergo “Il Gabbiano”. Altri 31 si trovano negli ex alloggi del cantiere Anas in località Galdo, comune di Sicignano.

«Tra difficoltà, paure e crolli emotivi si va avanti ed è stato necessario stabilire regole ferree affinché tutti capissero la necessità di collaborare», dice Anna Verderame, madrelingua inglese, che due giorni a settimana insegna loro la lingua italiana. Aggiunge don Vincenzo Federico, direttore della Caritas diocesana di Teggiano Policastro: «Abbiamo adottato un ritmo di vita quasi normale per rendere meno complicata la condizione di vita di questi ragazzi». E spiega le come si svolge la vita all’interno del centro: «Guardiamo qualche film, giochiamo a dama, ascoltiamo musica. Ma organizziamo anche piccoli viaggi in luoghi dello spirito: siamo stati con tutti i migranti cattolici del nostro centro in udienza dal Papa e abbiamo battezzato quattro bambini di diversa nazionalità, tra cui Sabino, un neonato eritreo nato due mesi nel centro di accoglienza di Sanza. Samara, una giovane ragazza di 19 anni, ha partorito all’improvviso ed è stata aiutata dalla sua amica Princess, che in Africa lavorava come infermiera».

Centinaia le storie, non solo quella di Fathi: centinaia di bisogni, speranze, sogni e controlli medici che la Caritas garantisce ai migranti per rendere la loro vita dignitosa. Com'è giusto per ogni essere umano.

Romina Rosolia

***

Alla "Casa del sole" di Roma, inchiodati davanti ad Al Jazeera

L’aria nei locali della casa accoglienza per malati del San Camillo-Forlanini di Roma “Casa del Sole”, da alcuni giorni è elettrica. Un’ala della struttura – che alloggia famiglie di malati gravi, in gran parte provenienti da paesi in emergenza umanitaria, ma anche da altre regioni italiane – ospita 25 persone (13 pazienti, di cui 10 minori, e i loro accompagnatori) tutti di provenienza libica. Al Jazeera passa a ciclo continuo immagini di bunker assediati, avanzate di ribelli, città conquistate palmo a palmo.

Sistemati su un comodo divano e su ogni sedia disponibile nel corridoio della casa, uomini, donne, ragazzi seguono gli eventi, incollati al video. E alle 20.13, il tramonto del sole che mette fine al digiuno giornaliero del Ramadan, finalmente si alzano i calici per il brindisi alla libertà: rigidamente a base di succo di frutta o Coca Cola, in ottemperanza al divieto islamico di bere alcolici. «Sono 42 anni che attendiamo questo momento», spiega con evidente soddisfazione Jalal, un ingegnere aeronautico sulla cinquantina, giunto a Roma con la figlia affetta da una grave patologia epatica. «Mi dispiace essere qui e non poter festeggiare con la mia famiglia e i miei compaesani. Ma la gioia è ugualmente immensa. Basta con Gheddafi, è stata la nostra rovina. La Libia è un vero paradosso: il paese più ricco con la popolazione più povera di tutta l’area».

Il gruppo di libici giunti a Roma a fine giugno per restarci altri tre mesi, fa parte della seconda fase del progetto di intervento di emergenza socio-sanitaria affidato al noto nosocomio romano. Il primo stadio, svoltosi in convenzione con Regione Lazio e ministero Affari Esteri, si rivolgeva a feriti di guerra dell’aria di Bengasi e ha coinvolto in tutto 57 persone, di cui 37 pazienti e 20 accompagnatori, arrivate ad aprile e tornate in patria alla fine di luglio. Il secondo gruppo invece, giunto grazie a una accordo di collaborazione con Europe Consulting Onlus finanziato dalla Fondazione Vodafone, è composto da persone con patologie gravi, in gran parte bambini, che dati i mezzi limitati e il sovraffollamento degli ospedali libici per il continuo afflusso di feriti della guerra in corso, rischiavano di non venire trattati con le dovute cure.

«Per più di 40 anni siamo stati governati da un folle, un intero Paese in schiavitù»

«Per noi è un’esperienza che potremmo definire di meta-sanità», spiega Aldo Morrone, direttore generale dell’ospedale. «Un progetto che ci inserisce a pieno titolo nella migliore tradizione di sanità globale che caratterizza i più grandi ospedali occidentali. Presto ospiteremo un grosso gruppo di pazienti irakeni». «Non credo che la guerra finisca a breve», interviene nel dibattito Adel, un ingegnere che ha collaborato con le operazioni Nato, ora a Roma con il figlio affetto da patologia renale e sordità congenita. «Ci sono molti fedeli del Raìs che combatteranno fino all’ultima pallottola. Prevedo almeno qualche altro mese di conflitto». «Io invece penso che non dovremo attendere molto», gli fa eco Marwa, una giovane paziente. «Per il dittatore e i suoi seguaci, le ore sono contate. E finalmente sarà libertà e pace. A scuola non potevamo esprimere alcuna critica al governo, nonostante fossimo tutti ridotti in povertà, senza accesso alle cure, e dovessimo tirare avanti con poca elettricità e beni primari scarsi. Molti degli insegnanti praticamente erano delle spie del regime».

Tutti nel gruppo si dicono fieramente oppositori del Raìs. «Per più di 40 anni siamo stati governati da un folle, un intero paese ridotto in schiavitù», riprende Jalal. «Ma tutto questo si è potuto verificare grazie anche alla compiacenza di molti Paesi occidentali. Siamo molto dispiaciuti per il sostegno dato a Gheddafi dall’Italia». Nessuno di questa comunità dimentica, infatti, che esattamente un anno prima, a neanche un chilometro di distanza dal San Camillo, quel Raìs che ora è in disarmo, faceva un suo show trionfale nella capitale, tra tende, sfarzo, centinaia di hostess, profeta di un Islam che avrebbe dovuto conquistare menti e cuori europei. «Gheddafi è finito ma io non riesco a essere felice», confessa Farag. «Penso a tutta la gente morta, a tutti i ragazzi che sono stati uccisi, anche in questi giorni». «Era un cattivo dittatore», si fa largo Aya, una ragazzina sveglissima di 12 anni con una seria patologia cardiaca, figlia di Farag. «E con lui finisce l’ingiustizia. Potremo finalmente studiare le lingue, non solo l’arabo e avere una scuola giusta per tutti».

Per tutta questa gente è finalmente lecito sognare. Tra i primi desideri, ovviamente, c’è la pace. Confida Adel: «Sono certo che presto giungeremo a un nuovo esecutivo di transizione che lavorerà bene e porterà pace e giustizia. A differenza dei nostri fratelli tunisini ed egiziani, noi libici riusciremo a far tacere presto le armi e a normalizzare la situazione. Siamo un piccolo popolo di poco più di 6 milioni di abitanti e, soprattutto, siamo molto uniti». Poi il lavoro e la sanità. Spiega l’ingegnere aeronautico Jalal: «Prendiamo paghe da fame, neanche 200 dollari al mese io e 180 circa mia moglie, che è insegnante. Ho otto figli e una di loro ha grossi problemi di salute. L’ho portata in Inghilterra con grandi sacrifici, ma tornata in Libia è peggiorata molto per mancanza di medicine e dottori specialistici». Il brindisi è terminato, ora si può finalmente mangiare. «Forse», sorride Aya, «al termine del Ramadan avremo un motivo in più per festeggiare».

Luca Attanasio

***

La presenza libica nel nostro Paese: poco aggregata e senza luoghi di condivisione

Secondo i dati Istat elaborati dal Dossier Statistico Caritas-Migrantes, relativi al 2009, i libici regolarmente iscritti all'anagrafe sono circa 1.500, su un totale di oltre quattro milioni di stranieri. Un numero molto esiguo rispetto agli immigrati dei Paesi extra-comunitari: gli albanesi sono circa 467 mila, gli ucraini oltre 174 mila, i moldavi quasi 106 mila, i macedoni 93 mila (fonte: Istat). Un po’ più dell’8 per cento proviene dalle regioni asiatiche: soprattutto da Cina (oltre 188 mila) e Filippine (quasi 124 mila), ma anche da India, Sri-Lanka, Bangladesh e Pakistan. Quasi l’8 per cento arriva dai Paesi dell’America centro-meridionale: principalmente Perù (88 mila) ed Ecuador (86 mila).

Oltre un quinto di questi immigrati non appartenenti all'Unione europea proviene da un paese africano: ma si tratta soprattutto di marocchini (432 mila), tunisini (104 mila) ed egiziani (oltre 82 mila). I cittadini libici rappresentano invece meno dell'1% degli immigrati nel nostro Paese e sono per la maggior parte uomini (849). Ma a differenza di altri migranti di origine africana, secondo una recente inchiesta di Sky.it, «non si conoscono, non si frequentano, non si sono mai riuniti in centri culturali, non hanno creato luoghi di aggregazione nelle città che sono diventate la loro casa».

Insomma, non esiste ancora in Italia una vera e propria comunità libica, anche se ci sono cittadini, in particolare di Tripoli e di Bengasi, sparsi un po' su tutto il territorio nazionale, soprattutto a Milano o a Roma: hanno un regolare documento, una casa e un lavoro. In alcuni casi si tratta di imprenditori, medici, ingegneri, giornalisti. Secondo i dati della Caritas-Migrantes, nel 2009 sono stati rilasciati 770 permessi di soggiorno: il 34% per lavoro, il 54,7% per ricongiungimento familiare e il 3,8% per motivo di studio.

dossier a cura di Pino Pignatta

Famiglia Cristiana

27 agosto 2011

27 agosto 2011

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento