"I conflitti hanno distrutto l’Africa, ora dobbiamo ricostruirla"
Laura Dotti
Seconda giornata di lavoro a Nairobi (Kenia) su “Resources and conflicts in Africa”. “Le risorse naturali di per se non sono cause di conflitto. Ma lo diventano se accompagnate da istituzioni deboli”.
NAIROBI – La lotta per il controllo delle risorse ma anche la presenza di istituzioni statali che producono disuguaglianza e ingiustizia: sono queste le maggiori cause dei conflitti nel continente africano. È quanto è emerso dalla prima sessione di lavoro della “Conferenza internazionale sulle risorse e i conflitti in Africa” in corso in questi giorni a Nairobi e promossa da Africapeacepoint, Tavola della pace, Coordinamento degli enti locali per la pace e Premio Ilaria Alpi. A portare il loro contributo al dibattito sono stati Ernest Surrur, segretario permanente presso il ministero degli Affari pubblici e presidenziali della Sierra Leone, e Robert Mudida, dell’Università di Nairobi. “Tutti noi, africani e occidentali, abbiamo contribuito a distruggere l’Africa – ha esordito Surrur -. Ed è per questo che ora tutti insieme dobbiamo impegnarci per ricostruirla”.
La corsa allo sfruttamento
Le ragioni alla base dei conflitti in Africa, ha sostenuto il segretario ministeriale della Sierra Leone, stanno anzitutto nella mancata ricostruzione dei Paesi africani dopo la loro indipendenza e nell’apertura incondizionata dei loro territori agli Stati occidentali in vista dello sfruttamento delle risorse. “Secondo un detto africano – ha riferito Surrur -, un termitaio che non vuole morire non deve permettere che funghi nocivi crescano sotto di esso. L’Africa, invece, ha fatto sì che questi funghi crescessero, perché ha consentito lo sfruttamento delle proprie risorse da parte di tutti”. Uno sfruttamento, ha spiegato il relatore, che è iniziato in modo massiccio alla fine dell’Ottocento e che è continuato fino a oggi. È dunque l’utilizzo delle risorse, per Surrur, la causa principale dei conflitti africani. Conflitti che possono essere molto diversi tra loro, ma che si sviluppano tutti in Paesi con caratteristiche comuni: una situazione di declino economico, un’organizzazione statale debole, la presenza di importanti materie prime e un facile accesso alle armi. Esemplificativo, per il relatore, il caso della Sierra Leone, interessata da un conflitto durato una decina di anni. “È stata una guerra per procura per controllare le risorse di diamante”, ha detto infatti Surrur.
I diversi fattori in gioco
Della necessità di “un approccio multidimensionale” allo studio delle guerre africane ha parlato invece il secondo relatore. “Le risorse naturali di per sé non sono causa di conflitto – ha affermato Mudida -, ma lo diventano se accompagnate da istituzioni deboli”. L’esperto ha citato infatti i diversi fattori che possono far crescere il rischio di guerre interne, come l’insoddisfazione della popolazione o l’avidità nell’utilizzo delle materie prime; ma ha insistito soprattutto sul ruolo giocato nei conflitti dalla cosiddetta “violenza strutturale”, intesa come condizione in cui la presenza di “strutture sociali anomale” impedisce ai cittadini di esprimere il loro pieno potenziale. Una perdurante situazione di frustrazione tra la popolazione, secondo Mudida, porta infatti a un tale livello di tensione interna da far aumentare la probabilità di ribellioni e scontri. Come è successo, ha sostenuto l’esperto, nel caso del Congo, del Sudan e della Nigeria. In una prospettiva di prevenzione dei conflitti, è stata dunque la sua conclusione, occorre andare alle radici del problema, cioè a una riforma di quelle istituzioni e strutture sociali che in una Paese producono disuguaglianza.
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