I 200 morti iracheni per cui l’Occidente non piange
Roberto Prinzi - Nena News
Si aggrava di ora in ora il bilancio del massacro avvenuto pochi giorni fa a Baghdad. Rabbia dei cittadini contro il premier che annuncia nuove misure di sicurezze. In Siria, intanto, torna a colpire l’aviazione israeliana.
Se non il più grave attacco di sempre poco ci manca: l’attentato rivendicato dall’autoproclamato Stato Islamico (Is), avvenuto ieri mattina nel distretto di Karrada (Baghdad), ha ucciso almeno 213 persone. Secondo le ricostruzioni delle autorità locali, l’autobomba guidata da un jihadista ha colpito un’area affollata di gente per l’ultimo week end prima della festa dell’Eid che segna la fine del calendario sacro islamico del Ramadan.
Un bilancio di morte che era apparso già gravissimo ieri, ma che sta salendo di ora in ora: i feriti sono oltre 200 e alcuni versano in gravi condizioni. Secondo le forze della difesa civile, ci vorranno giorni per recuperare i corpi di tutte le vittime. L’attacco è giunto a una settimana dalla riconquista della città di Fallujah da parte delle autorità irachene: una vittoria di grande valore strategico perché lascia al “califfato” il controllo in Iraq della sola Mosul. La mattanza di ieri ha fatto infuriare gli iracheni: bersaglio delle accuse dei cittadini è soprattutto il governo che non è in grado di porre fine agli attacchi jihadisti nella capitale irachena nonostante le debolezze militari che gli uomini del “califfo” stanno recentemente palesando.
Nel tentativo di difendersi dagli attacchi dei suoi connazionali, il premier al-Abadi ha annunciato che verranno compiuti degli “sforzi” per risolvere le falle dell’apparato di sicurezza. Tra i primi provvedimenti presi: il divieto di falsi metal detector per rivelare le bombe; l’utilizzo di dispositivi a scansione alle entrate della città; il divieto per i militari di usare cellulari ai checkpoint; un maggior coordinamento tra le forze di sicurezza. Al-Abadi ha poi proclamato tre giorni di lutto nazionale e ha promesso che gli autori della strage di Karrada saranno “puniti”.
Tutto ciò, però, non sembra bastare per placare la rabbia popolare. Un video diffuso in rete mostra un uomo lanciare delle pietre contro il (presunto) convoglio del premier. Di fronte all’insoddisfazione dei suoi connazionali, il primo ministro ha provato ad usare toni concilianti: “capisco le risposte emotive e [comprendo] che [queste] azioni avvengono in un momento di rabbia e tristezza”. Ma sono fonemi vuoti perché non possono più lenire le frustrazioni di una popolazione che dopo 13 anni di massacri è stanca di morire.
L’inviato Onu in Iraq Jan Kubis ha definito l’attentato un “atto odioso e codardo di proporzioni sbilanciate” e ha invitato le autorità locale a fare giustizia. Per le vittime degli attentati di Dacca (Bangladesh) di sabato e di Baghdad di ieri ha pregato ieri all’Angelus anche papa Francesco. Silenzio imbarazzante invece da parte degli Usa e dell’Unione europea. Muto è rimasto anche il premier Renzi. Eppure parliamo di un attentato il cui bilancio di morte è 10 volte più grande di quello di Dacca e a compierlo è sempre la stessa mano: il terribile Stato Islamico che l’Occidente fa finta di combattere.
Ma la sfortuna degli iracheni è duplice perché ieri a Karrada non è morto nemmeno un occidentale e, pertanto, la notizia può passare per lo più inosservata: le vittime non meritano di essere umanizzate con delle brevi biografie come facciamo con i “nostri” morti. Non appartengono alla nostra umanità: anche nella morte glielo ricordiamo, anche nella morte questo diritto non glielo accordiamo. Sono numeri nel migliore dei casi quando cioè, colti da magnanimità, ce ne ricordiamo. Eppure qualche esperto avrebbe potuto ricordare ai lettori e ai telespettatori come il numero enorme di vittime abbia riportato l’Iraq ai tempi drammatici degli attentati compiuti da Abu Musab az-Zarqawi, il leader di al-Qa’eda in Iraq, ucciso in un raid americano nel 2006. E avrebbe dovuto spingere qualche onesto capo di governo a spiegare ai suoi cittadini che cosa realmente si sta facendo da due anni in Siria e Iraq per fermare al-Baghdadi se i suoi uomini possono compiere ancora massacri di tale portata nella capitale irachena.
Ma se l’Iraq piange, la Siria non sorride. Oggi l’esercito israeliano ha attaccato due “obiettivi militari” sulle alture del Golan dopo che alcuni colpi da fuoco, secondo la versione dell’esercito dello stato ebraico, avrebbero colpito la barriera di sicurezza posta sulla linea di demarcazione tra il Golan siriano e quello “israeliano” (per l’Onu, occupato e annesso illegalmente dallo stato ebraico). Lo scorso aprile anche il premier Netanyahu ammise che l’aviazione di Tel Aviv aveva attaccato in Siria diversi convogli perché “trasportavano armi ad Hezbollah”.
Sul piano militare, inoltre, ieri i ribelli siriani di Jaish at-Tahrir sostenuti dagli Usa hanno accusato i combattenti di an-Nusra (il ramo siriano di al-Qa’eda) di aver rapito sabato sera il loro comandante Mohammed al-Ghabi e altri combattenti nei pressi di Kafranbel. Recentemente an-Nusra (alleata in alcune battaglie con i ribelli sostenuti dall’Occidente) ha più volte attaccato alcuni gruppi di opposizione “moderata” nella provincia di Idlib controllata da Jaish al-Fath, un’allenza islamica rappresentata da an-Nusra e dai salafiti di Ahrar ash-Sham (quest’ultimi, sostenuti soprattutto dalla Turchia, vengono accolti con tutti gli onori nelle sede diplomatiche occidentali).
Si fa gravissima, intanto, la situazione umanitaria nel Paese. Almeno 13.000 civili sarebbero in fuga dal bastione dell’Isis di Manbij (nord della Siria) da quando le forze democratiche siriane (FDS) – allenza curda e araba sostenuta dall’aviazione Usa – hanno iniziato l’offensiva per riprendere il controllo di questa strategica cittadina vicina al confine con la Turchia. A giugno un rapporto dell’Onu sosteneva che 60.000 persone erano ancora intrappolate in città e la situazione sembra non essere ancora migliorata. Le Nazioni Unite chiedono un aiuto “incondizionato” anche per decine di migliaia di persone intrappolate in altre quattro aree della Siria. L’inviato Onu nel Paese, Yaacoub el-Hilo, ha detto ieri che le cittadine di Madaya, Zabadani, Foua e Kafraya sono ormai senza cibo a causa dell’assedio delle forze del presidente siriano Bashar al-Asad (a Madaya e Zabadani) e dei ribelli (a Foua e Kafraya).
Nena News
4 luglio 2016