Haiti, nelle tendopoli ai tempi del colera. “Senso di morte e caccia all’untore”
Daniele Mastrogiacomo
Il contagio si estende con i movimenti della popolazione. Sull’isola l’ultimo caso risaliva al 1960. Il racconto di Stefano Pezzini, capo missione di Médicins sans Frontières. Paura e timore che la malattia sia stata portata dagli stranieri. E intanto arriva anche l’uragano Tomas.
"Vedo le strade vuote", racconta Stefano Pezzini, capo missione di Médicins sans frontières ad Haiti, "e un fiume d'acqua che scende a valle, verso la città. La gente resta tappata in casa, non si muove. Non ci sono auto in giro, né moto, né carretti, né biciclette. Piove, piove a dirotto da giovedì sera. E' arrivato Tomas, la tempesta che le correnti calde dei Caraibi hanno trasformato in uragano. L'urlo, lugubre e costante, del vento rende l'atmosfera ancora più cupa. Nuvoloni grigi e neri sfiorano le cime delle montagne che sovrastano Port-au-Prince e minacciano anche loro di scendere a valle. C'è ancora un milione e mezzo di persone, di vecchi, donne e bambini, che vive per le strade e nelle piazze".
"Ci vive da dieci mesi", riflette Pezzini, nei pochi minuti che ci concede, interrotto da altre telefonate, pause per impartire ordini, richieste di nuovi interventi, "da quando c'è stato uno dei terremoti più devastanti a cui ho assistito nella mia lunga esperienza professionale. Campano alla meglio. Gli haitiani ci sono abituati. Si abituano a tutto. Ma resistere giorno e notte, settimane, mesi, con il caldo e con il freddo, con il sole a picco e la pioggia torrenziale, mette alla prova anche gli animi più rocciosi. I ripari non sono alloggi: sono fatti di teli, di plastica, di cartone, di legni legati assieme con il fil di ferro, con spaghi logori e sfilettati. A volte, quando scendo verso il centro della città, lungo la strada a tornanti che scivola dalla montagna, mi fermo a osservare questa enorme tendopoli spontanea e primitiva. Mi chiedo come faccia la gente a vivere con pochi servizi igienici, a cucinare tra materassi, stuoie e fagotti. Come possa svegliarsi, dopo un sonno interrotto da grida, da pianti, da lamenti, da scossoni, da scariche di acqua che cadono dal cielo con violenza, miste a raffiche di vento che raggiungono i 120 chilometri. Con le angosce quotidiane, il lavoro che non esiste, un futuro senza senso, i sogni e i progetti svaniti, i parenti, i figli, le mogli e i mariti, gli amici morti e scomparsi sotto la montagna di macerie".
Stefano Pezzini resta qualche secondo in silenzio. "Ci sono immagini", suggerisce ad un certo punto, "che ti restano dentro, impresse nelle memoria più profonda, che formano e plasmano il tuo carattere, la tua indole, persino la tua mente. Sono un capo missione di una ong formata da medici, infermieri, tecnici di laboratorio. Vedo e assisto tutti i giorni feriti, ammalati, morti. Ma a volte è difficile restare freddi e razionali. L'emozione ti prende alla gola e te la stringe in una morsa".
L'arrivo dell'uragano Tomas ha mobilitato tutta l'imponente macchina degli aiuti. Il governo ha invitato la popolazione a lasciare le tendopoli improvvisate e ha raggiungere luoghi più asciutti e più protetti. "Ma la gente", spiega Stefano Pezzini, "non si muove. Le persone che incontro durante il mio lavoro mi dicono che non sanno dove andare. Che le tendopoli che si sono costruite rappresentano ancora il luogo più sicuro. Ma anche se lo trovassero temono di perdere quel poco che sono riusciti a salvare dal terremoto del gennaio scorso. Ogni vestito, oggetto, strumento è carico di significati. Racchiude ricordi, esprime legami, affetti, persino privilegi. C'è un grande senso di sconforto e di rassegnazione. La macerie sono ancora accumulate negli stessi luoghi dove sono crollate, la nuova città è ben lontana da risorgere. Ci sono molti progetti, idee, piani. Ma la mancanza di fondi, una mancanza acuita dalla crisi che colpisce tutto il mondo, qui significa niente scuole, case, negozi, attività".
Il capo missione di Msf è preoccupato dal colera. L'infezione si estende. Gli ultimi dati ufficiali parlano di 4.600 casi sospetti e 440 morti. "Questo fino a mercoledì sera 3 novembre", precisa Pezzini. "E di questi 105 sono deceduti solo negli ultimi tre giorni. L'impennata ci ha colto di sorpresa. Ma ha finito per confermare il quadro che ci eravamo fatti. Sono stati tre giorni di festa e la gente si è mossa, è andata a trovare amici e parenti. Chi era contagiato o solo portatore sano, ha infettato gli altri. Il colera si sviluppa nelle situazioni di promiscuità e nei casi di pessime condizioni igieniche. I focolai sono infatti divampati in sei punti dell'isola: a nord-est, a nord-ovest, ovest, sud-ovest, sud e a Trinité. Tutte aree dove si sono registrati i flussi maggiori di persone che si spostavano durante le festività. Lo so: la gente accusa gli stranieri di aver portato il bacillo. E' un sentimento molto diffuso. Lo capisco. Molti haitiani non sanno nemmeno cosa sia il colera. Per trovare un caso sull'isola bisogna risalire al 1960. Può sembrare paradossale. Nonostante Haiti abbia sempre patito una povertà e condizioni di vita catastrofiche non c'è mai stato un problema di colera. La gente alimenta poi leggende: siamo sempre nell'isola del woodoo, c'è bisogno di attribuire responsabilità. Spesso mistiche. E la colpa finisce per essere trovata all'esterno, tra chi è venuto da fuori, tra quanti possono essere malvagi, avvolti da spiriti maligni, negativi. Si sono fatte molte ipotesi e tra queste c'è anche chi parla di membri dello staff di qualche ong o dei caschi blu dell'Onu. Altri, gli epidemiologi e gli studiosi del fenomeno, ritengono invece che sia stato portato dall'esterno ma da qualche haitiano fuggito all'estero e poi tornato in patria. Non sono in grado di stabilire la verità.
Credo che nessuno medico al mondo lo sia. Cercare le responsabilità iniziali è quindi uno sforzo inutile, non ha senso. Siamo molto preoccupati perché non possiamo prevedere il suo sviluppo, ma temiamo che le difficili condizioni dell'isola siano ottimi veicoli per il contagio. Non parlerei di epidemia. Per il momento. Ma può accadere di tutto. La pioggia, tra l'altro, rischia di esasperare la situazione. Ci hanno appena comunicato che pioverà per altre 48 ore. Ininterrottamente. Immagino come si trasformeranno gli accampamenti. Per il momento sono crollate un paio di case rimaste in piedi dopo il terremoto. So anche che ci sono stati due morti. Siamo, purtroppo, nella norma".
"Qui", aggiunge Stefano Pezzini, "il senso di morte continua ad aleggiare. Port-au-Prince è costretta a convivere con la sua storia fatta di tragedie, di sofferenza, di lutti. E' una città che ti offre tutti gli svantaggi di una grande città e di un piccolo centro. La gente vive ammassata l'una sull'altra. Il contagio di ogni infezione è immediato. E la sporcizia, le condizioni igieniche esasperate dal terremoto, ti costringono a intervenire sempre. Una corsa contro il tempo. Dove il tempo non ha inizio né fine".
Fonte: Repubblica, Mondo Solidale
6 novembre 2010