Guardare per capire (e per agire)


Piero Piraccini


Vedere o guardare non è la stessa cosa. L’uno comporta uno sguardo distratto che si ferma alla superficie dell’oggetto, l’altra lo penetra in profondità cogliendone l’essenza. Nell’un caso l’interlocutore può anche essere in disaccordo, ma il fatto è che perde di significato la discussione per cui può essere difficile il confronto perché stai parlando con […]


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Vedere o guardare non è la stessa cosa. L’uno comporta uno sguardo distratto che si ferma alla superficie dell’oggetto, l’altra lo penetra in profondità cogliendone l’essenza.

Nell’un caso l’interlocutore può anche essere in disaccordo, ma il fatto è che perde di significato la discussione per cui può essere difficile il confronto perché stai parlando con uno che ha visto senza guardare.

E allora (ri)guardiamo la foto di Aylan, il bimbo dalla maglia rossa riverso senza vita sulla spiaggia turca di Bodrum; o quella di Petra Lazlo, la giornalista ungherese che sgambetta il profugo siriano in fuga dalla polizia col figlioletto in braccio; o quella di Idomeni, il più grande campo profughi della Grecia (“la Dachau dei nostri giorni” l’ha definita un ministro greco) dove in mezzo al fango vivono (?) migliaia di esseri umani; o quelle dei visi e degli occhi terrorizzati dei ragazzi israeliani che cercano di sfuggire dalle atrocità di Hamas; o quelle di bimbi madri padri fratelli nonni ormai privi di lacrime, tanto è il terrore e il pianto versato a fronte delle migliaia di morti con cui Gaza convive temendo che la prossima bomba li travolga; o quelle degli angeli di Natale appesi alle macerie, le anime – si è scritto – dei bambini palestinesi mentre i Magi invece di oro, incenso e mirra portano bianche lenzuola (kafan, il nome) divenute parte di un macabro paesaggio abbagliante se non fosse per le macchie rosse che svelano la presenza di corpi, sudari donati da paesi arabi assieme a cotone ed eucalipto per la preparazione prima della sepoltura; o quella delle file umiliate con la stella gialla cucita sulla giacca, il bambino con le braccia alzate che esce dal ghetto di Praga, i soldati intorno ridenti e complici…

Bene, quale mai sguardo abbiamo riservato a quelle foto ognuna delle quali ci indicava un immediato da farsi, se ora viviamo tempi in cui la guerra stravolge le nostre ore?

Questi giorni mi è capitato fra le mani un articolo di alcuni anni fa che trattava di “cortina di ferro” e di “guerra fredda” (definizioni di Churchill e di Orwell). Si parla di un funzionario dell’ambasciata americana a Mosca degli anni ’50 (George Kennan) cui si chiede un report sullo stato dell’URSS. Semplice, la sua risposta: “L’URSS è molto più povera di noi. Col 6% della popolazione mondiale noi possediamo il 50% della ricchezza. Lasciamo stare la storia dei diritti umani e sogni del genere: le cose vanno bene così”. Anni dopo ammonisce il presidente Clinton: “Allargare la Nato verso i confini della Russia è pericoloso per gli equilibri mondiali”. Guerra in Ucraina docet.

Ora, si provi a ricordare le prime pagine dei maggiori quotidiani e talk show prima del massacro del 7 ottobre. Argomento principe? Salvo pochi avveduti, la bambina con la pesca di Esselunga! Intanto, in quegli stessi giorni mesi anni (poco cambia) Gaza e la Cisgiordania ribollivano di rabbia o di dolore.

Qual era lo sguardo della sinistra, di solito più sensibile di altre compagini politiche sul tema della pace, se al Parlamento europeo (anno 2019) equipara la Germania nazista all’URSS comunista, riducendo ad unum l’Armata Rossa che libera il campo di sterminio di Auschwitz con le SS che in quel campo avevano costruito i forni crematori?

A quando il risveglio da questa mutazione che sembra aver agito sull’inconscio antropologico, se la timida Schlein impensierisce perché quando parla di Ucraina osa aggiungere la parola “trattativa” all’invio di armi, e dice “basta” alle armi a Israele? Intanto, mentre la Corte dell’Aia ordina a Israele di cessare i massacri di civili paventando il rischio di genocidio, Medici senza Frontiere denuncia che a Gaza non esistono più strutture sanitarie in grado di fornire medicine salvavita.

Perché in questa fase non c’è spazio per guardare e capire, essendo impossibile il semplice vedere, tanto è l’orrore che le immagini producono.

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