Go, Obama, go…but not too far


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Share Vai Obama, ma non andar troppo lontano, quando ti occuperai di nuovo di Medio Oriente, in questo secondo mandato. Si potrebbe sintetizzare così quello che pensano molti arabi della rielezione di Barack Obama.


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Vai Obama, ma non andar troppo lontano, quando ti occuperai di nuovo di Medio Oriente, in questo secondo mandato. Si potrebbe sintetizzare così quello che pensano molti arabi della rielezione di Barack Obama. Tradotto: se la sconfitta di un conservatore come Mitt Romney, simbolo di una politica mediorientale retriva, è uno scampato pericolo, il secondo mandato di Barack Obama, per molti, è però solo il minore dei due mali.

Il presidente americano ha deluso (quasi) tutti, nel corso della sua prima amministrazione. Eppure, i primi passi avevano segnato una discontinuità, rispetto all’era Bush. A cominciare dalla prima telefonata fatta dopo il suo insediamento, il 20 gennaio del 2009. Obama, allora, aveva lanciato un segnale ben preciso a Israele, che appena poche ore prima aveva smesso di bombardare Gaza, colpita per venti giorni da una guerra lampo che ha lasciato ferite ancor oggi non rimarginate. Il presidente americano aveva chiamato i leader che si erano complimentati con lui per la sua elezione, e la prima chiamata l’aveva fatta a Mahmoud Abbas: un modo per dire che quell’operazione militare gestita dal governo di Ehud Olmert, iniziata poco dopo le elezioni negli States, il 27 dicembre del 2008, non l’aveva per niente gradita.

Poi erano venute le aperture verso il mondo musulmano. La storica visita in Turchia, nell’aprile del 2009, e poi quel discorso pronunciato all’università del Cairo nel giugno successivo, discorso a tratti commovente che era sembrato una pietra tombale sulla strategia delle amministrazioni Bush… Israeliani e palestinesi messi sullo stesso piano, il supposto ‘scontro tra le civiltà’ mandato in soffitta. Ci avevano creduto, gli arabi, che pure nutrivano parecchia diffidenza nei confronti di Obama. Poi, pian piano, gradualmente, la politica estera obamiana si è rimessa in riga, sfrondata la rosa dei consiglieri degli uomini che più avevano segnato i cambiamenti del primo periodo, sino all’abbandono di George Mitchell.

L’ultimo Obama, prima della rielezione, è stato non solo opaco, verso il Medio Oriente e il Nord Africa. Ha dovuto ancora una volta rincorrere gli eventi, dopo quella fase iniziale che, invece, lo aveva messo in sintonia con molti di quelli che, nel 2011, sono stati protagonisti del Secondo Risveglio arabo. Così è successo che Obama, l’Obama dello Yes, We Can, è stato colto di sorpresa dalle rivoluzioni, salvo poi – ma solo parzialmente – rincorrerle quando alla Casa Bianca e nell’amministrazione democratica hanno capito che non si potevano più difendere e sostenere gli alleati di sempre. Hosni Mubarak in testa.

Da allora, la Realpolitik è in auge, a Washington. I partiti nati dal grande grembo dei Fratelli Musulmani – con l’eccezione, almeno per ora, di Hamas – sono stati accettati dalla strategia mediorientale americana perché hanno vinto le elezioni. Dopo anni, se non decenni, di isolamento delle istanze islamiste. E, sull’altro fronte, il rapporto con Israele è stato rafforzato, nonostante le frizioni sulla questione iraniana. E’ stato riposto malamente nel cassetto il processo di pace con i palestinesi, dopo un primo tentativo di costringere Bibi Netanyahu e Mahmoud Abbas l’uno accanto all’altro, almeno di fronte a obiettivi e telecamere. Le critiche verso Tel Aviv sono state talmente deboli come un sussurro: critiche che per nulla hanno scalfito la politica di Netanyahu, Barak e Lieberman, diversa solo nei dettagli, sull’aumento delle colonie israeliane in Cisgiordania. Molto più pesanti, invece, sono state le pressioni esercitate sull’ANP di Ramallah per evitare che quel ballon d’essai diplomatico dello Stato di Palestina, perseguito ma senza grandi entusiasmi anche in questi giorni, non divenisse realtà. Per non dispiacer troppo, ovviamente, Israele.

E poi, last but not least, c’è la questione iraniana… Speriamo che Barack Obama, Nobel per la Pace, non si trovi in mezzo a un’altra avventura militare, stavolta contro Teheran. Speriamo che le frizioni dietro le quinte tra USA e Israele non lascino il passo, tra qualche mese, all’idea che il nucleare iraniano si possa fermare solo con un’operazione militare, e non invece in altro modo. Speriamo che, appunto, Obama non vada troppo lontano, in Medio Oriente.

Ce n’è abbastanza, dunque, perché gli arabi diffidino di Obama, al suo secondo mandato, pur avendo sperato sino all’ultimo che Obama riuscisse a sconfiggere Romney. Il problema è che il Medio Oriente non ha bisogno del ‘male minore’. Ha bisogno, a questo punto, di fantasia, di una strategia di lungo respiro e non del piccolo cabotaggio. Ma questi, si sa, sono discorsi antichi. Triti e ritriti.

Ahlan wa Sahlan, Obama. Benvenuto, ancora una volta. Ma non ci deludere di nuovo…

Fonte: http://invisiblearabs.com
7 novembre 2012

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