Gaza, un massacro di innocenti
Michele Giorgio, Il Manifesto
L’inviato del Manifesto racconta la tragedia di Gaza attraverso la storia di Jacqueline e Iyad, due fratellini palestinesi uccisi dai soldati israeliani durante l’operazione "inverno caldo". L’esercito si ritira dalla Striscia, Hamas canta vittoria. Condanne per le vittime civili da Unicef e Amnesty. Condoleezza Rice oggi a Ramallah, in un clima tesissimo.
E’ difficile persino sognare in un campo profughi come Jabaliya eppure la stanza di Jacqueline parla di un’esistenza felice. Orsetti e bambole di peluche adornano la scrivania dove la bambina faceva i compiti. Sulle pareti foto di ragazzine sorridenti e disegni colorati si abbinano bene al piumone rosa e celeste con Micky Mouse sul lettino sfatto.
“Jacqueline era una studentessa modello, tra le prime della sua classe”, racconta un cugino, “lei e suo fratello Iyad sarebbero andati il prossimo anno ad una scuola migliore”. Ma la bambina non varcherà il cancello di quella nuova scuola. Jacqueline è morta venerdì notte, in casa, mentre cercava di portare soccorso a Iyad, centrato alla testa dai colpi sparati da un tiratore scelto israeliano. Colpi che non hanno risparmiato nemmeno lei, scambiata come il fratello per un combattente palestinese, da chi aveva ricevuto l’ordine di sparare contro qualsiasi ombra, senza pensarci due volte.
La gente di Jabaliya è in strada a celebrare il ritiro dei reparti israeliani dal campo profughi e dal villaggio adiacente, ma anche per rendersi conto dei danni gravi che strade, case, negozio e piloni dell’elettricità hanno subito dal passaggio dei giganteschi Merkava israeliani. I bulldozer sono già al lavoro per cercare di rendere percorribili le vie bloccate da detriti o impraticabili per le buche profonde. Molti inneggiano ad Hamas che, in quel momento, sta tenendo un raduno a Gaza City. Il ritiro israeliano da Jabaliya e Beit Lahiya, dopo giorni di incursioni e raid aerei che non hanno fermato mai i lanci di razzi palestinesi su Sderot e Ashqelon, per il movimento islamico è l’inequivocabile segnale della vittoria. “Il nemico è stato sconfitto” ha commentato Sami Abu Zuhri, il portavoce di Hamas – “Gaza sarà sempre un cimitero per le forze di occupazione”. Ma non tutti hanno voglia di festeggiare. “Mi piacerebbe sentirmi sereno, ma non ci riesco. Jacqueline e Iyad sono morti e anche la mia famiglia ha vissuto momenti difficili”, spiega Rames Tbel, lo zio dei bambini uccisi, che si è visto occupare l’abitazione dalle truppe israeliane. “I soldati hanno sfondato la porta e sono entrati in casa a piena notte, tra venerdì e sabato”- racconta – ci hanno costretto a rimanere tutti in una stanza: io, mia moglie, mia sorella, i miei genitori e i miei bambini. In tutto 13 persone, sorvegliati da tre militari. L’incubo è terminato solo stamani all’alba”. La casa dei Tbel è stata usata, assieme ad altre, come posizione militare e per la famiglia il dolore è stato doppio. “I soldati hanno sparato proprio dal nostro appartamento contro la casa di Jacqueline e Iyad”, aggiunge Rames. Ieri l’Unicef ha espresso “profonda preoccupazione” per i bambini e adolescenti palestinesi rimasti uccisi e ricordato che occorre prendere tutte le misure possibili per garantire protezione e assistenza ai minori. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Louise Arbour, ha chiesto a Israele di avviare un’indagine sull’uccisione dei civili.
Dalla Cisgiordania – ma anche da Siria, Libano ed Egitto – intanto arrivano notizie di manifestazioni e scontri con l’esercito e quella di un ragazzo palestinese ucciso da un colono israeliano. A Gaza sperano in una sollevazione a Ramallah, quando oggi alla Muqata il presidente Abu Mazen incontrerà il Segretario di stato Usa Condoleezza Rice.
“Sono di Fatah e non di Hamas – dice Rames Tabel – ma da Abu Mazen dico di annullare subito il meeting con Condoleezza Rice. Il presidente non può stringere la mano di chi arma Israele contro i palestinesi”. Intorno alcune persone annuiscono e vorrebbero spedire al mittente i cinque milioni di dollari che Abu Mazen ha promesso alle famiglie colpite dalle operazioni militari israeliane. Jabaliya oggi respira ma a Gaza nessuno si fa illusioni. Le truppe israeliane torneranno, prevedono in tanti, non appena la Rice sarà ripartita, e forse penetreranno più a sud, a Khan Yunis e Rafah. D’altronde gli avvertimenti del premier israeliano Olmert non lasciano spazio a ipotesi più confortanti e i 110 palestinesi uccisi da mercoledì scorso –almeno il 50% erano civili (25 avevano meno di 18 anni), ha riferito ieri il centro israeliano per i diritti umani “B’Tselem”- potrebbero rivelarsi solo un anticipo dei massacri futuri.
E per impedirli non bastano le condanne di Amnesty che ha accusato Israele di aver avuto “un incurante disprezzo per le vite civili”. Nella Gaza priva di tante cose dopo mesi e mesi di duro embargo economico e che pure regge l’urto degli attacchi militari, ora si pensa a come aiutare i feriti. “E’ un lavoro immenso- spiega il dottor Raed Arini, dell’ospedale Shifa- l’Egitto ha aperto le sue porte ai nostri feriti più gravi ma non possiamo inviarli tutti al Cairo perché abbiamo appena 4-5 ambulanze equipaggiate per la terapia intensiva e in ogni caso manca la benzina”. Arini mostra le foto dei feriti, molti dei quali hanno subito orrende mutilazioni a causa di proiettili e schegge che provocano un foro minuscolo ma poi “bruciano” nei arti colpiti. “Dopo tanti giorni di emergenza scarseggiano i kit di pronto soccorso e di chirurgia – avverte Arini – risparmiamo su tutto, ma nessuno può compiere l’impossibile”.
FONTE: IL MANIFESTO
PUBBLICATA IL 4 MARZO 2008