Gaza sotto le bombe, uccisi 26 palestinesi
Michele Giorgio
Trecentosessanta invece sono i razzi lanciati dal Jihad islami verso Israele dove hanno fatto una cinquantina di feriti. Egiziani e Onu lavorano per un cessate il fuoco
«Ero stato ferito e ho telefonato a mio padre. Stava venendo a trovarmi in ospedale, i miei fratelli erano con lui sulla moto quando sono stati colpiti da Israele». Così Loay Ayyad raccontava ieri la fine di suo padre Raafat, 54 anni, e dei fratelli Islam, 25 anni, e Amir, 7 anni. A colpirli è stato un missile sganciato da un drone israeliano nei pressi della moschea Ali, nel quartiere al Zaitun di Gaza city. Sui social ieri giravano le foto di Amir che sorride mentre si prepara ad andare a scuola. Civili innocenti fatti a pezzi da un missile ma che, in quanto palestinesi, non fanno notizia. Almeno non quanto i civili israeliani feriti dai razzi palestinesi lanciati da Gaza: una cinquantina hanno ricevuto cure mediche, 23 dei quali sono caduti mentre cercavano di raggiungere i rifugi, due sono rimasti feriti dalle schegge di un razzo, una donna anziana è stata colpita da un vetro andato in frantumi e resta grave una bimba di 8 anni colpita due giorni da infarto al suono delle sirene di allarme. I circa 360 razzi lanciati da Gaza, fino a ieri sera, hanno provocato pochi danni perché, sottolineano gli stessi media israeliani, sono caduti in aree aperte e disabitate o sono stati abbattuti dal sistema di difesa Iron Dome.
A Gaza invece non ci sono sistemi di difesa e rifugi per civili. I raid aerei sono andati avanti per tutto il giorno. Quella di ieri, all’indomani dell’omicidio mirato del comandante militare del Jihad, Bahaa Abu al Atta, ordinato dal premier israeliano Netanyahu, è stata una giornata di sangue e di paura, per adulti e bambini. Una giornata in cui sono stati uccisi almeno 16 palestinesi: gli ultimi due ieri sera a Rafah. Che si aggiungono ai 10 di martedì. In totale sono 26, tra cui tre bambini e una donna. Per Israele si trattava nella maggior parte dei casi di «terroristi». Aprendo la riunione di governo Netanyahu è tornato a minacciare il Jihad: «Credo che il messaggio stia cominciando a passare, continueremo a colpirli senza pietà, siamo determinati a combattere e proteggere noi stessi. Hanno una opzione, mettere fine a questi attacchi o subire ancora più colpo», ha avvertito. Identico il tono del neo ministro della difesa, Naftali Bennett. «Questa mattina abbiamo mandato un chiaro messaggio a tutti i nostri nemici, dovunque si trovino – ha sottolineato – chiunque pianifichi di colpirci di giorno, non può essere mai sicuro di quello che faremo la notte. Eravate e restate nel nostro mirino».
Nel mirino però ci sono finiti anche persone innocenti, scuole ed edifici civili. Il Centro per i diritti umani di Gaza (Pchr) ha documentato la distruzione completa di tre case – due a Khan Younis e una a Rafah – dopo che proprietari e vicini hanno ricevuto chiamate dalle forze armate israeliane che ordinavano loro di abbandonarle prima dei bombardamenti. Anche le scuole e le università di Gaza sono rimaste chiuse, come quelle nelle regioni meridionali di Israele. Chiusi anche gli uffici pubblici per il secondo giorno, così come il valico commerciale di Kerem Shalom, ad est di Rafah, da dove transitano le merci per Gaza, e quello di Erez. Divieto per i pescatori di uscire in mare tranne che nell’estrema parte meridionale di Gaza.
L’escalation innescata dall’assassinio di Abu Al Atta – l’inchiesta svolta a Gaza dice che è stato ucciso da un piccolo drone “kamikaze” imbottito di esplosivo ad alto potenziale scoppiato appena dentro la sua abitazione – si trasformerà in una ampia offensiva militare israeliana contro Gaza come nel 2014? L’incertezza è grande. Il portavoce del Jihad, Musab al Breim, ha escluso un cessate al fuoco al momento, sottolineando che «non è appropriato parlarne, con tutto il rispetto per gli sforzi arabi». Ma il segretario generale dell’organizzazione, Ziad al Nakhla, era atteso ieri al Cairo dai mediatori egiziani che stanno cercando di raggiungere un cessate con l’aiuto dell’inviato Onu, Nikolaj Mladenov. Già nella capitale egiziana, Mladenov ha condannato con forza «il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro i centri abitati (israeliani) e deve fermarsi immediatamente», senza mostrarsi altrettanto perentorio nei confronti della ripresa degli omicidi mirati di leader palestinesi da parte di Israele.
«È improbabile che si arrivi subito a un cessate il fuoco» dice il giornalista di Gaza, Aziz al Kahlout «il Jihad islami pensa che la sua rappresaglia per l’uccisione di Abu Al Atta non sia ancora finita». Allo stesso tempo, aggiunge, «Ziad al Nakhla sa che lo scontro può sfociare in una guerra aperta che la sua organizzazione non potrebbe portare avanti da sola, senza la partecipazione di tutte le altre fazioni armate e soprattutto di Hamas». Guerra che il principale movimento islamico palestinese, che controlla Gaza dal 2007, non vuole. Perché da mesi è impegnato in trattative indirette con Israele per una tregua di lunga durata che lo rafforzerebbe notevolmente anche nei confronti dell’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen. Non è passata inosservata l’assenza delle Brigate Al Qassam, l’ala militare di Hamas, dall’elenco delle organizzazioni armate che ieri hanno annunciato un’alleanza con le Brigate Saraya al Quds, il braccio armato del Jihad, contro Israele. «Hamas però la guerra potrebbe essere costretto a combatterla ugualmente – spiega al Kahlout – se Israele continuerà i pesanti bombardamenti degli ultimi due giorni e se non si avvierà la trattativa sul cessate il fuoco».
Michele Giorgio
14 novembre 2019