Gaza e Ucraina: due crisi, una storia da ripassare
Avvenire
A rendere ancora più incerta e inquietante la prospettiva è l’accelerazione concomitante di due crisi che da tempo si alternano sulle pagine dei giornali e che adesso, all’improvviso, si ritrovano affiancate.
La Storia non si ripete, d’accordo, eppure «la Storia ha più memoria di noi», come dichiarava ieri il filosofo francese Régis Debray in una lunga intervista apparsa sul quotidiano francese «Le Monde». Anche la geografia, del resto, ha le sue ragioni. C’è una diagonale che attraversa per intero – da Est a Ovest, e da Sud verso Nord – la carta geografica dell’Ucraina. Muove dal confine con la Russia, nei pressi di Donetsk, nel punto in cui l’altro giorno è stato abbattuto il volo MH17 della Malaysian Airlines.
Si parte dalla cronaca di queste ore, incerte e concitate, e si risale fino a un’altra zona di frontiera, il triangolo in cui convergono Ucraina, Polonia e Bielorussia. Brest-Litovsk è incastonata in questo mosaico. È la città bielorussa dove, il 3 marzo del 1918, fu firmato il trattato che poneva fine alla guerra tra gli Imperi centrali e la Russia non più zarista, non ancora sovietica. Mosca perdeva una serie di territori strategici, a partire dall’Ucraina, una nazione considerata già allora molto appetibile a causa dei suoi giacimenti di ferro e carbone.
Un anno dopo il patto di Versailles avrebbe in qualche modo riequilibrato la situazione, riducendo drasticamente la sovranità tedesca, ma questo non smentisce l’affermazione dello storico inglese Norman Stone: «L’Europa moderna – scrive – è una Brest-Litovsk dal volto umano, anche se ci sono volute una seconda guerra mondiale e un’occupazione angloamericana della Germania per farci arrivare fin qui». Qui dove?, viene da domandarsi non appena si prova a ripercorrere la successione delle notizie degli ultimi giorni. Prima l’abbattimento del Boeing 777 malese, con lo scambio di accuse tra Kiev e Mosca. Subito dopo, al termine di una tregua durata solo poche ore, Israele rompe gli indugi e decide di colpire Gaza per via di terra, dando inizio a un’invasione a lungo ritenuta più temibile che probabile. Siamo arrivati qui, appunto. A rendere ancora più incerta e inquietante la prospettiva è l’accelerazione concomitante di due crisi che da tempo si alternano sulle pagine dei giornali e che adesso, all’improvviso, si ritrovano affiancate.
Si tratta di uno scenario inedito, che chiama diversamente e – di nuovo – contemporaneamente in causa la Russia di Putin e l’America di Obama. Coinvolta in modo diretto la prima, e non soltanto perché una delle ipotesi di cui si discute vuole che l’aereo di linea sia stato scambiato per il volo presidenziale russo. Da diversi mesi ormai l’Ucraina è divenuta il banco di prova dell’egemonia putiniana sui satelliti della galassia ex sovietica. Interessi economici che si scontrano con il risorgere di vecchi nazionalismi, senza che Mosca appaia disposta ad arretrare di un passo rispetto alle sue prerogative. Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti, che durante il doppio mandato del presidente democratico non sono riusciti a elaborare una politica innovativa sulla questione israelo-palestinese, impegnati come sono nelle campagne militari in Afghanistan e in Iraq, con un dispendio di uomini e mezzi che ha gettato più di un’ombra sul Nobel “preventivo” con cui nel 2009, fresco di mandato, Barack Obama fu premiato per il suo impegno a favore della pace.
Torniamo a guardare la carta geografica e riportiamo, ancora una volta, il calendario indietro di un secolo scarso, fino al momento in cui, alla fine della Prima guerra mondiale, il territorio del futuro Stato di Israele viene posto sotto il mandato britannico. Régis Debray direbbe che non è abbastanza.
I processi storici hanno una portata più vasta, per capire il presente non basta richiamarsi al passato prossimo, occorre retrocedere alle sottigliezze del Medioevo, c’è bisogno di maneggiare archetipi radicati nell’antichità. Sarà anche vero, ma ora come ora ricucire le distanze con gli esordi del “Secolo Breve” rimane un’operazione abbastanza istruttiva. Il Novecento, infatti, ereditò dall’Ottocento il rompicapo del cosiddetto “Grande Gioco”, un viavai continuo di spie e trafficanti lungo un altro crocevia di frontiere, nelle terre che oggi sono Iran, Iraq, Afghanistan, con la Russia sempre lì a un passo e Gerusalemme, e Istanbul, a fare da porte d’Oriente. Allora Londra sfidava Mosca, ora tocca a Washington prendere e mantenere posizione.
E l’Europa, in tutto questo? Davvero, al cospetto di una crisi tanto vasta e sfaccettata, l’Unione può permettersi di non elaborare una riconoscibile e unitaria politica internazionale? La questione va al di là della vicenda che in questi stessi giorni interessa l’Italia per la candidatura di Federica Mogherini alla rappresentanza europea degli Affari esteri. È un processo di lungo periodo, che affonda le radici nella tradizionale vocazione “atlantica” dell’Unione, di fatto mai sottoposta a ragionata revisione neppure dopo un massiccio allargamento a est destinato a produrre, presto o tardi, attriti e incomprensioni con la Russia.
La Storia non si ripete, dicevamo, ma dalla Storia si ha l’obbligo di imparare. Nel 1914 gli osservatori erano concordi nel riconoscere la complessità e la fragilità degli equilibri in atto, restando peraltro concordi nella valutazione che una guerra, a quel punto, non sarebbe stata possibile né conveniente. La situazione precipitò a Sarajevo, in quello che può essere considerato un incidente del tutto imprevisto: l’attentato fallito, l’automobile dell’arciduca Francesco Ferdinando che cambia tragitto, sbaglia strada, si imbarca in una retromarcia non prevista e in questo modo passa proprio davanti al cospiratore Gavrilo Princip, che estrae la rivoltella, spara, uccide. La guerra impossibile diventa, in pochi giorni, ineluttabile.
Donetsk non è Sarajevo, il 2014 non è il 1914. Non per questo, però, i segnali vanno sottovalutati. E i segnali, in questo momento, vanno nella stessa direzione, che è quella di un’instabilità davanti alla quale ci si sente impreparati e impauriti. Né è di grande consolazione la consapevolezza che in molte zone del mondo (ma non in tutte, come dimostra la tragica contabilità delle vittime in Terrasanta) i conflitti armati sono in larga parte sostituiti da controversie commerciali, embarghi, dispute sulla gestione delle risorse naturali. Sono guerre anche queste, sia pure combattute con altri mezzi. Ma provocano ugualmente lutti, disastri, povertà. Processi devastanti, che la globalizzazione ormai compiuta rischia di proiettare su scala parossistica, con conseguenze che nessuno, in questo momento, è in grado di prevedere.
Un importante storico anglosassone, Niall Ferguson, in un suo imponente studio sulla Prima guerra mondiale, ha cercato di rispondere a una serie di domande che possono, da ultimo, ridursi a una sola: perché nessuno ha impedito un massacro che diventava di giorno in giorno più evidente? Tra un secolo, forse, qualcuno potrebbe rivolgere a noi un interrogativo simile. La risposta, questa volta, sarebbe meglio trovarla noi stessi, e trovarla per tempo.
Fonte: www.avvenire.it
19 luglio 2014