Forze armate, riforma last minute. Ma fuori dal Parlamento scatta la protesta
Thomas Mackinson - Il Fatto Quotidiano
Mentre si falcia il welfare e finiscono in nulla provvedimenti discussi per mesi, il comparto Difesa non risente della crisi politica, né di quella economica.
Tutto si ferma, ma niente ferma le armi. Oggi a Montecitorio deputati dai giorni contati voteranno la legge che delega un governo che non c’è più a varare la riforma delle Forze Armate. Le dimissioni di Monti sconvolgono il calendario parlamentare e fanno decadere fior di provvedimenti (il primo a cadere ufficialmente, il riordino delle Province), ma non intralciano l’ennesimo favore della politica all’industria bellica. Per le associazioni pacifiste il provvedimento, infatti, taglia il personale militare, ma solo per comprare più armi (tra cui i cacciabombardieri F35), aumentando così la spesa bellica e quella pubblica.
Del resto proprio il comparto della Difesa, unico tra i ministeri, nell’anno del rigore e dei tagli ha registrato addirittura un piccolo aumento degli stanziamenti (785 milioni di euro, il 3,8%) e del budget totale, che per il 2012 sfonda quota 21 miliardi di euro. E senza contare il finanziamento delle missioni militari all’estero e i fondi che Ministero per lo Sviluppo Economico è costretto a erogare per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma. E poco importa se, nel frattempo, le politiche di austerity hanno inciso pesanti riduzioni nella spesa di capitoli essenziali per la vita degli italiani come pensioni, sanità e welfare.
Per denunciare tutto questo domani, proprio fuori da Montecitorio, le associazioni che hanno promosso la campagna “Taglia le ali alle armi” organizzano un presidio di informazione e pressione. “Per la riforma i giochi purtroppo temo che siano fatti”, spiega Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo, ma l’obiettivo del sit-in è spingere il tema disarmo nel cuore della campagna elettorale alle porte. In prima fila la Tavola della pace, Rete italiana per il disarmo, Sbilanciamoci! e al Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani. Sarà anche l’occasione per fare il punto sulla corsa agli armamenti, sulle dinamiche che consentono alla lobby delle armi di imporre i propri interessi allo Stato drenando dal bilancio miliardi di euro. Con la complicità, la connivenza o l’indifferenza della politica.
Il voto disarmante. Lo scenario che si apre dopo Monti, con il ritorno in campo di Berlusconi, un Pd favorito sulla carta e l’ingresso di nuove forze come il M5S rende sempre più incerto il quadro di chi, nel Parlamento, appoggerà davvero una politica di riduzione delle spese negli armamenti. Un’idea precisa la si può ricavare però da “Armi, un affare di Stato”, il libro-inchiesta scritto da tre giornalisti impegnati nelle campagne di disarmo. Francesco Vignarca, autore con Michele Sasso e Duccio Facchini sintetizza così le posizioni emerse durante due anni e mezzo di campagna e riportate in un capitolo dal titolo attualissimo: “L’Italia è il Paese che armo”.
“Intanto ci ha sorpresi vedere che il tema delle armi, dopo anni di silenzio ha fatto irruzione nel dibattito tra Renzi e Bersani per le primarie visto da 7 milioni di persone. Tre anni fa sarebbe stato impossibile far uscire qualcosa su questo tema fuori da certi giri”, dice Francesco Vignarca. E invece è stato un tema addirittura di dibattito nazionale. “E se lo pongono all’attenzione loro, perché la domanda non l’abbiamo fatta noi, vuol dire che è sentito e che chi è più o meno vicino a noi una risposta ritiene di doverla dare, mentre dall’altra parte abbiamo sempre trovato un muro”. E allora esiste un voto utile per il disarmo? “In Parlamento oggi in realtà non c’è una chiara polarizzazione delle posizioni. Certo l’Idv con Di Stanislao e una parte minoritaria del Pd si sono dimostrati più sensibili e attivi. Penso agli interventi dell’onorevole Scanu sui poligoni in Sardegna, le bonifiche ambientali o di Sarrubi contro i programmi di acquisto dell’F35. Ma ci sono anche posizioni pro-difesa.
Dall’altra parte c’è invece un muro. La Lega Nord, ad esempio, è schiacciata nel ruolo di difesa del sistema produttivo del Varesotto rappresentato da Dario Galli, presidente della provincia di Varese e consigliere di Finmeccanica. Nel Pdl il tema non è particolarmente sentito, anzi. Ma ci sono posizioni di totale chiusura e altre più dialoganti come Guido Crosetto che oppone ragioni contrarie alle nostre, ma non si è sottratto al confronto come la maggior parte dei colleghi. Del resto la situazione su alcuni capitoli di spesa, come l’F35, è così insostenibile che perfino l’onorevole Fabrizio Cicchitto è intervenuto alla Camera per chiedere di dare una regolata alla corsa alle armi”. Fuori dal Parlamento, Sel ha sposato da tempo la causa e Nichi Vendola ha inserito nel programma elettorale l’impegno a fermare la spesa militare. Con attenzione si guarda al M5S. “Ancora non c’è un programma definito ma nelle corde del movimento il tema del disarmo c’è ed è ricorrente. Lo stesso Grillo ha ospitato nostri interventi sul suo blog e ora aspettiamo di vedere se il disarmo sarà un punto programmatico”.
Ribaltando il quesito, qual è il voto più pericoloso per le ragioni del disarmo? Nelle 238 pagine di “Armi, un affare di Stato” tre protagonisti del mercato delle armi sono ben delineati: l’industria bellica, la politica e la finanza. Sul fronte politico prestare il fianco all’industria delle armi è un vizio trasversale. Nel capitolo “L’Italia è il Paese che armo” si spiega chiaramente come Silvio Berlusconi, insieme al ministro La Russa, siano stati i maggiori supporter di Finmeccanica e solerti impallinatori della legge 185, che è il baluardo della trasparenza in fatto di acquisti e spese d’arma. Ma non si tace il ruolo avuto dal centrosinistra, a partire dal fatto che la decisione di partecipare al famigerato programma F35 fu presa nel lontano 1996 da Romano Prodi con Andreatta ministro.
Finanza e banche. Volti puliti e mani sporche. Un altro capitolo, “Lo Stato va in paradiso (fiscale)”, delinea il ruolo centrale assunto dalla finanza nel sostenere il sistema della corsa all’armamento, un business che non può fallire perché si svolge in un settore che non è neppure un mercato, avendo lo Stato come committente unico e primo azionista delle aziende produttrici. In sostanza le banche e la finanza che non fanno credito alle imprese e ai cittadini allargano volentieri i cordoni della borsa ai produttori di armi perché è un business dai ritorni certi. Tra i passaggi interessanti (LEGGI) quello che mette in luce gli espedienti adoperati da alcuni istituti di credito per sostenere il mercato bellico senza farlo vedere a correntisti e clienti convinti di avere a che fare con banche sempre più etiche e meno armate. Se Unicredit, ad esempio, resta alla luce del sole un grande sponsor dell’armamento (ha in pancia 180 milioni di euro di autorizzazioni), Banca Intesa ha ufficialmente stretto i rubinetti delle armi per tutelare la propria immagine. In realtà fa parte di quelle banche “disarmate in patria” che continuano ad alimentare il mercato mondiale attraverso partecipazioni a gruppi internazionali lontani dal controllo e dai valori dell’occidente ispirati a ragioni etiche. Tra i campioni internazionali del credito alle armi, ad esempio, spicca l’Unione delle banche Arabe ed Europee. Tra il 2006 e il 2010 la Ubae Spa ha autorizzato operazioni per 107 milioni di euro. E chi fa parte della compagine societaria? Unicredit (10,7%), Sansedoni Siena (3,6%), Intesa Sanpaolo (1,8%) e grandi imprese italiane come Eni (5,3%) e Telecom (1,8%).
“La finanza – spiega Vignarca – gioca un ruolo implicito nel settore sostenendo anche il collocamento di obbligazioni delle società e i fondi di investimento. E lo fa perché quello delle armi non è un mercato, è un settore senza concorrenza dove la committenza è pubblica e consente di accaparrarsi commesse dai ritorni altissimi garantiti dallo Stato. Tutti gli attori hanno vantaggi: produttori e finanziatori incassano denaro, i manager pubblici portano a casa bonus e stock option. I ricavi delle aziende, e qui torna la finanza, vanno dritto nei paradisi fiscali. L’80 delle società della galassia Finmeccanica ha sede fuori dai nostri confini, anche in paesi dalle facilitazioni fiscali come Olanda e Lussemburgo.
Gli utili li fa così, non pagando le tasse allo Stato che ne è proprietario e creando con gli utili possibili provviste per le tangenti che dominano globalmente i meccanismi di commercio delle armi, da soli responsabili del 50% della corruzione mondiale”. La Magistratura rincorre da tempo, ma la politica ora che impegni prederà?
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it
11 dicembre 2012