Fao: promesse e mancati impegni non fermeranno la morte per fame
Emanuele Giordana - Lettera22
Dietro le quinte di un summit che si spacca sulla dichiarazione finale che alla fine viene approvata ma con l’opposizione di un fronte latino americano. Capofila: l’Argentina.
La dichiarazione finale del Vertice Onu di Roma sulla crisi alimentare sembra arenarsi su una parola e sull'opposizione di un fronte principalmente sudamericano guidato da Argentina, Venezuela e Cuba e appoggiato da Nicaragua, Ecuador e Bolivia.. La parola si riferisce a un comma della dichiarazione finale che irrita non solo Buenos Aires. Ma alla fine si arriva a un compromesso per cui all'approvazione della dichiarazione di Roma, che quel termine contiene, ne verrà allegata una integrativa molto critica e argomentata firmata dai contrari. Ma al di la' della battaglia su quel termine, che ha spaccato il summit, la dichiarazione finale scontenta un po' tutti e dice poco su come governare l'emergenza e il futuro dell'economia agricola del pianeta. Ci si e' arrivati con un lungo negoziato di tre settimane, una battaglia nelle ultime ore e un documento ridotto nei capitoli quanto nel succo politico. Nessuno ne esce vincitore e alla fine il summit, che rischiava di chiudersi con un nulla di fatto, riesce solo a dire qualcosa, a raccogliere fondi per l'emergenza e ad affidare a una task force dell'Onu la gestione di un da farsi molto vago e che comunque non tocca i grandi nodi del business agroalimentare, della speculazione finanziaria, del dilemma degli agrocarburanti o di nuove forme di protezione delle reti contadine. L'unico risultato e' che, pur tra mille difficoltà, del problema si e' discusso e lo si e' fatto in un forum multilaterale. Molto poco. E in un futuro incerto per quel miliardo di persone che hanno fame senza sapere a chi dare la colpa.
Risultati scarsi e battaglia diplomatica
Ma come e'cominciata la lunga maratona negoziale? Cosa l'ha bloccata tra richieste, veti, interrogativi? Inizia a maggio. I grandi nodi da slegare allora, e che solo in parte si erano sciolti alla vigilia del summit lunedì scorso, riguardavano diversi punti sul governo dell'economia della crisi e alcuni contenuti di natura eminentemente politica. Come quello sulla condanna dell'embargo e sul divieto di ricorrere a soluzioni unilaterali, con un riferimento evidente alla necessità di appellarsi sempre al multilateralismo, volute soprattutto da Cuba e dal Venezuela. Proprio la questione di Cuba ha finito per compattare una sorta di fronte sudamericano, gia' irritato da alcune frasi del documento che in parte sono state emendate ma che ancora restavano, a poche ore dall'inizio vertice, patate bollenti. Babele difficile da gestire anche perche' nei giorni scorsi anche Tokio aveva battuto i pugni sul tavolo e gli statunitensi premevano per imporre una visione ben lontana da una mandato in bianco all'Onu.
Alla fine, racconta un funzionario che ha partecipato al negoziato, la Ue si e'spazientita per i continui aggiustamenti imposti soprattutto da americani del Sud e del Nord (e questi ultimi sono riusciti a levare ogni riferimento possibile a un forte ruolo dell'Onu che ne ridimensiona il protagonismo). I negoziatori europei avrebbero cosi' imposto, alla vigilia dell'apertura del summit, di arrivare in fretta a un compromesso. Il testo di otto cartelle, faticosamente negoziato sino ad allora, e' a quel punto stato ridimensionato soprattutto con le forbici. Ed e' diventato di quattro, vergato in gran parte da tre estensori: un americano, un arabo e un africano. La versione ridotta, gia' dall'altro ieri sera, girava nelle mani dei giornalisti, filtrata ufficiosamente dal pool dei negoziatori.
L'out out della Ue
La Ue a quel punto ha messo un out out a ormai poche ore dalla chiusura: o si accetta l'ultima versione o addio, ma il documento non si tocca. I negoziatori si son fatti forti di essere una voce che parla per 27 paesi (alcuni dei quali, come la Francia, disposti ad accantonare le polemiche sulla Pacs e la questione dei sussidi agricoli) e che l'Unione aveva già "ingoiato"una serie di misure imposte da altri attori: l'ostruzionismo dei latinoamericani, l'impuntatura dell'Avana, Baires e Caracas, i distinguo asiatici, le reprimende africane, i tagli statunitensi. Quel che e' lecito supporre e' che, mentre gli Stati Uniti si stavano costruendo un castelletto di alleanze con Canada, Australia e Nuova Zelanda, anche i sudamericani abbiano fatto quadrato e utilizzato la questione cubana come bandiera dietro la quale, nemmeno tanto nascoste, stanno altre questioni: due in particolare. La riluttanza brasiliana ad accettare riferimenti al biofuel (nel paragrafo dedicato alla questione la Ue avrebbe sudato sette camice per introdurre il termine "sostenibile", un riferimento che non piace ai grandi produttori di agrocarburante). E soprattutto l'opposizione argentina a un sottocapitoletto che testualmente recita: "…riaffermare la necessità di minimizzare l'uso di misure restrittive che potrebbero aumentare la volatitlità dei prezzi internazionali". Frase che aveva suscitato l'ira di Buenos Aires, grande produttore (7 volte il fabbisogno nazionale) di derrate agricole, che si sentiva costretto ad accettare diktat esterni sulle politiche di esportazione di cereali.
Ma c'era altro. Sempre nello stesso capitolato, al punto precedente, la polemica si era accesa su un'apertura di credito all'agenda del Wto e che a molti era sembrata una forma di ricatto: chi non accetterà i suoi dettati – con tutto quello che ciò vuol dire e cioè una sottomissione alle regole del più forte – non riceverà aiuti. Punto voluto dalla Ue e ancora una volta poco amato dai latinoamericani ma anche dal Forum parallelo.
L'Africa e sullo sfondo
E il fronte africano? Secondo i negoziatori, il continente non poteva aspettarsi molto dal documento se non il riconoscimento, ormai entrato nel sentire comune, che sono gli africani i primi recettori dell'aiuto. Ma nei corridoi della Fao qualcuno ci spiega che "non solo nel documento, ma nemmeno nei draft precedenti, si fa cenno a una commissione d'indagine scientifica sulla crisi alimentare, a partire dalle responsabilità, un po' come e' stato fatto sul clima", inutilmente chiesta dagli africani. Del resto, dicono i maligni, in questo scontro alla Fao, seppur sullo sfondo, c'e' anche, pur se tra qualche anno, proprio un'uscita di scena dell'Africa. L'attuale direttore senegalese, Diouf, andrebbe via forse anche prima del tempo, spinto dalla Ue. E al suo posto ci dovrebbe andare o un uomo di Bruxelles o qualcuno che rappresenti il continente latinomaericano.
Fonte: lettera22, il Manifesto e blog di Emanuele Giordana
06 giugno 2008