Fame? L’emotività non basta
MissiOnLine
Monsignor Bertin, vescovo di Gibuti, al Pime per denunciare la crisi alimentare in Somalia e dintorni. “La crisi era prevedibile, il mondo è rimasto a guardare”.
Una carestia prevedibile, quella che da mesi si è trasformata in emergenza alimentale nel Corno d’Africa; un ritardo imperdonabile della comunità internazionale nell’affrontarla; una situazione drammatica che richiede continuità di attenzione, oltre l’emotività del momento, nonché interventi politici profondi, oltre l’emergenza umanitaria, «perché in Somalia c’è uno Stato da ricostruire».
Così si è espresso monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, ieri sera al Centro Pime di Milano, aprendo il ciclo dell’Ottobre missionario sul tema “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, curato dalla redazione di Mondo e Missione. Bertin è intervenuto al Pime a poche ore di distanza dall’ennesimo appello di Benedetto XVI in favore della popolazione colpita dall’emergenza alimentare in Africa: c’era anche lui ieri mattina all’udienza del mercoledì in piazza san Pietro, insieme col presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum.
«La carestia? Sono saltati due periodi di pioggia consecutivi (ottobre-novembre 2010 e aprile-maggio 2011), quindi un peggioramento della situazione alimentare era ampiamente prevedibile», ha esordito, incalzato dalle domande di Anna Pozzi, giornalista del mensile del Pime. «In Somalia (il Paese più colpito dall’emergenza alimentare insieme al Sud dell’Etiopia e al Nord-est del Kenya) la situazione è ovviamente aggravata dalla guerra che si trascina da 20 anni. «Un tempo la Somalia esportava le sue banane ora non più… Oggi alla calamità naturale si è associata la calamità umana, il crollo dello Stato: un cocktail micidiale».
Eppure – ha insistito Bertin – si poteva fare molto di più, e molto prima. «In Somalia i primi interventi in favore della popolazione colpita dalla siccità abbiamo iniziato a farli in aprile (attraverso alcune organizzazioni locali), ma solo a luglio il mondo ha aperto gli occhi sul problema. C’erano già i segnali preoccupanti, ma le orecchie sono state sorde». Ancora Bertin: «Ricordo bene che all’incontro delle Caritas dell’Africa nord-orientale il 7 luglio a Nairobi già si presentò un quadro drammatico, il 17 luglio c’è stato il primo intervento del Papa sull’emergenza alimentare e da allora il mondo ha scoperto la crisi». Qual è il problema? «Il nostro mondo va a vanti a sussulti, non c’è perseveranza, troppa emotività. Ad esempio: non sono contrario, in linea di principio alle raccolte fondi via Sms (possiamo considerarle simili all’evangelico obolo della vedova), ma è troppo poco! Ci commuoviamo spesso, davanti alle scene di fame e miseria, ma poi tutto finisce presto nel dimenticatoio. E invece, no! Lo sappiamo: è possibile sconfiggere la fame!
Occorre però cambiare i rapporti economici, gli stili di vita, oltre la commozione del momento».
Fortunatamente, anche in un momento buio come la carestia, non mancano le buone notizie: la fame fa scattare la solidarietà. «E io ne sono testimone, sottolinea mons. Bertin, ricordando quando, in occasione di una precedente carestia nel 1992 ricevette 100 dollari da alcuni detenuti, condannati a morte, della prigione di Yaoundé (Camerun)».
Quanto all’intervento di Caritas Somalia in risposta all’emergenza attuale, Bertin (che ne è il presidente) dice che non è importante tanto per l’entità dei fondi, ma perché «siamo i primi a cogliere i bisogni della popolazione». In questi mesi gli aiuti sono arrivati sotto forma di derrate alimentari, costruzione di cisterne per l’acqua, interventi sanitari ed educativi («sconfiggere l’ignoranza significa, alla lunga, sconfiggere anche la fame»).
Ma per migliorare davvero la condizione di vita della popolazione la risposta umanitaria in Somalia non basta: «c’è da ricostruire lo Stato», ostaggio del terrorismo, di «una minoranza di fondamentalisti la cui violenza si ritorce anzitutto sugli stessi consanguinei, come nel caso dell’attentato di pochi giorni fa costato la vita a un centinaio di giovani». La lotta al terrorismo, spiega Bertin, si gioca anche nelle scuole, perché il terrorismo si nutre di ignoranza: a Gibuti, ad esempio, da decenni funzionano scuole cattoliche gestite dai Fratelli delle scuole cristiane (fino all’estate scorsa) che hanno formato molti ragazzi, in larghissima maggioranza musulmani. «Io stesso, quando gli Stati Uniti hanno aperto una nuova base a Gibuti ho chiesto l’equivalente dei costi di un carro armato per l’istruzione».
Per questo la Caritas si prodiga negli aiuti ma vuole avere anche voce in capitolo, in qualche misura, nel giudizio sulla situazione politica, «evitando la politica dello struzzo, altrimenti non ne usciremo per altri 100 anni».
Come uscirne? Nel momento in cui «il 2-3% di somali tiene in ostaggio il Paese costringendo a trattare con loro», monsignor Bertin, pur senza farsi troppe illusioni («ci sono state in pochi anni 15 conferenze internazionali sulla Somalia!»), pensa che un contributo decisivo al miglioramento del quadro politico possa venire dai somali della diaspora. E da una comunità internazionale più partecipe della sua rinascita, inclusa l’Italia che ha una lunga storia di amicizia con quel Paese e che non può esimersi da un impegno politico diretto, «ma senza fare la prima donna».
Fonte: www.missioneonline.org
7 Ottobre 2011