Export armi alle dittature. Stop svedese e silenzio italiano
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Cosa impedisce al governo e ai parlamentari italiani di compiere una scelta simile a quella dei loro colleghi svedesi? Come entra questa prospettiva strategica nel dibattito dei partiti alle prese con nuove alleanze elettorali?
La Svezia ha deciso, con accordo unitario tra governo e opposizioni, di bloccare l’esportazione di armi verso gli stati autocratici e che non rispettano i diritti umani. Ne hanno dato notizia le agenzie di stampa e i media principali. Eppure il Paese scandinavo non vive in un mondo ideale di pace. Ha un vicino come la Russia che non fa dormire sonni tranquilli, tanto che il ministro della difesa svedese ha parlato, nell’agosto scorso, di provocazioni intollerabili da parte delle truppe di Putin che usano, nelle loro esercitazioni al confine, anche armi nucleari tattiche. Il governo svedese ha deciso di reintrodurre da marzo 2017 la coscrizione militare obbligatoria nel Paese richiamando in servizio tutti i ragazzi nati tra il 1999 ed il 2000.
Le aziende degli armamenti, a cominciare dalla multinazionale Saab, hanno criticato la scelta di porre limiti troppo esigenti nella vendita delle armi arrivando a minacciare di delocalizzare altrove la produzione anche se la Svezia è interessata ad aumentare il bilancio della difesa perché, come afferma la tesi prevalente , «la stessa produzione di tecnologia militare è un fattore fondamentale per la dissuasione e quindi la pace». Si tratta, secondo questa prospettiva, di un settore «da tutelare con grande cura nell’ambito delle democrazie avanzate». Resta il fatto che la produzione di armi non può essere vincola al principio di sufficienza (“produco solo per la mia difesa”) ma ha bisogno di trovare comunque dei compratori.
Nell’audizione di Mauro Moretti, avvenuta il 7 marzo presso la Commissione attività produttive della Camera, l’ex amministratore delegato di Finmeccanica Leonardo ha segnalato la controtendenza dell’Italia nei confronti degli altri Paesi Nato, a cominciare dagli Usa, che stanno incrementando la spesa per la Difesa, auspicando perciò il raggiungimento del 2% del Pil annuale . Secondo l’osservatorio Milex questo incremento comporterebbe il passaggio da una spesa giornaliera del settore da 64 a 100 milioni di euro. Lo stesso Moretti, sostituto nel frattempo nella carica ricoperta ora dall’ex manager bancario Alessandro Profumo, ha descritto ai parlamentari uno scenario di riferimento a livello mondiale che vedrà da qui al 2021 picchi di spesa in Arabia Saudita (+19%) e in Asia (+10% India e +8% Cina) con una Russia, invece, data in flessione dopo un periodo di crescita costante.
Cosa farà l’Italia? Il boom del fatturato di Finmeccanica Leonardo è direttamente collegato alla recente vendita di 28 caccia bombardieri Eurofighter al Kuwait, Paese che fa parte, tra l’altro, della coalizione a guida saudita coinvolta nella guerra in Yemen. Lo stesso conflitto dove sono stati impiegate bombe provenienti dall’azienda Rwm sita in Sardegna e controllata dalla multinazionale tedesca Rheinmetall Defence. La seduta dell’assemblea della Camera dei deputati prevede per il prossimo 17 luglio la discussione di una mozione sulla guerra nel piccolo Paese del Golfo Persico dove è scoppiata anche una forte epidemia di colera. Cosa impedisce al governo e ai parlamentari italiani di compiere una scelta simile a quella dei loro colleghi svedesi? Come entra questa prospettiva strategica nel dibattito dei partiti alle prese con nuove alleanze elettorali?