Essere rifugiati in Italia. Il dramma dei somali di via dei Villini
Bruna Iacopino
Chiedono una vita normale, lavoro e dignità, la possibilità di aver accesso a servizi minimi come potrebbe essere un corso di italiano…
Raggiungo l’ambasciata somala intorno alle 12, mentre cominciano a cadere i primi fiocchi di neve. Intirizzita dal freddo mi trovo di fronte volti di uomini, stretti in giacche di fortuna, cappello in testa che guardano con diffidenza le presenze estranee che questa mattina hanno invaso il loro spazio, quella che è casa loro, per alcuni da 5-6 anni per altri da uno o due. Pochi sono quelli che si avvicinano e hanno voglia di parlare, anche per una normale difficoltà linguistica, l’italiano non lo parlano e lo capiscono poco. Hanno facce stanche e scoraggiate, tanto sanno che sparite le telecamere, l’unica oggi era quella di El Pays, e sparite le macchine fotografiche, la mia, tutto tornerà nell’oblio, nessuno tornerà stasera a portargli delle coperte in più, per una notte che si presenta gelida, come quella appena trascorsa, o un pasto caldo. Non si fidano… ma, come dargli torto?
“Viviamo in compagnia dei topi, neanche le bestie vivono così” dice qualcuno in somalo. Mentre Shukri Said traduce per noi quelle poche cose dette con rabbia e fra i denti, un topo passa indisturbato accanto a noi e sparisce tra le piante.
Nessuna foto, non vogliamo essere fotografati. Questa è la condizione per farci stare là. Una piccola delegazione, composta da 4 o 5 di loro ci fa da guida. E’ la Rosarno di Roma, con l’unica discriminante dello sfruttamento, del lavoro nero, dello schiavismo.
Chiedono una vita nomale, lavoro e dignità, la possibilità di aver accesso a servizi minimi come potrebbe essere un corso di italiano… Uno di loro tira fuori la patente italiana e me la fa vedere. “Io vorrei lavorare, ho anche preso la patente apposta, ma quando vado alle agenzie mi dicono tutti che se non conosco la lingua nessuno mi prende…”
E i corsi di italiano. Si quelli ci sono certo, ma molte volte gli orari coincidono con quello della mensa a pranzo o a cena e allora, sei costretto a decidere: o impari la lingua o metti qualcosa nello stomaco. Alla mensa della Caritas ci si arriva a piedi, facendo chilometri per pranzo e cena, e poi via di nuovo in quella che un tempo fu un palazzo signorile e che adesso è soltanto lo spettro di una passata grandezza, a ripararsi alla meno peggio, con tutto quello che si ha incollato addosso.
C’è rabbia ed esasperazione, ma orgoglio e una fierezza testardi: “ Noi non chiediamo né assistenza, tanto meno la carità, vogliamo vivere in maniera dignitosa, neanche in Africa si stava così…”
E nella tragedia ironizzano, riescono anche sorridere di quelle condizioni disumane, dei cumuli di spazzatura, dei soffitti cadenti. “ Bello vero?” mi dice qualcuno in un italiano stentato mostrandomi le stanze ai piani alti, raggiungibili attraverso una stretta scalinata tra pareti scrostate e cacche di topi.
Ma c’è anche chi ha drammi più grandi da affrontare e digerire, come la perdita di una figlia, strappata dalle braccia della madre appena nata e messa in un istituto, vista l’impossibilità da parte dei genitori di poterle garantire una vita normale. “ Mi hanno detto che mi ridaranno mia figlia quando avrò trovato una casa, un lavoro e una nuova compagna, ma così, mi dite come posso fare?” Uno dei tanti sfoghi, di chi vuole rimanere senza nome e senza volto, pur avendo un documento in mano, quello che gli riconosce lo status di rifugiato in Italia ma non gli permette di poter essere padre e veder crescere la sua bambina.
C’è chi aveva provato ad andare in Svezia, chi in Norvegia, lì c’è uno stato che li garantisce e da loro un sussidio. Qualcuno allora tira fuori la carta di credito, quella che viene data ai rifugiati dentro i campi d’accoglienza in Svezia e spontanea sorge la domanda: dove vanno a finire i fondi che L’UE stanzia per i rifugiati e che arrivano anche all’Italia?
Intanto la realtà è che dalla Svezia o dalla Norvegia si deve tornare in Italia e l’Italia in questo momento è un palazzo decadente, senz’acqua e senza luce, nel cuore della Capitale tra ville e palazzi.
Fonte: Articolo21
17 dicembre 2010