Elezioni, dove rompere l’uovo?


Guglielmo Ragozzino


Parlava Paul Ginsborg alla casa del popolo di Cintoia, a Firenze. Cercava di spiegare perché sia necessaria una lista unica per le elezioni europee. Raccontava di avere vissuto con grande disagio una diatriba nella sinistra americana…


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Elezioni, dove rompere l'uovo?

Parlava Paul Ginsborg alla casa del popolo di Cintoia, a Firenze. Cercava di spiegare perché sia necessaria una lista unica per le elezioni europee. Raccontava di avere vissuto con grande disagio una diatriba nella sinistra americana, divisa tra un partito comunista e due partiti socialisti trotzkisti, a loro volta in inconciliabile disaccordo tra loro sul sostegno da offrire a Timor est. Da grande storico delle cose italiane, Paul era a conoscenza della suscettibilità nazionale e aveva cercato un esempio agli antipodi, ma era chiaro cosa intendesse. A me (scriverò in prima persona singolare, contro l’uso) e a un mio amico da sempre, del tutto fuori dai giochi politici, ma importante nella società civile e arrivato da lontano, per rendersi conto direttamente dello stato delle cose, le parole dello storico richiamarono la controversia, sfociata in guerra accanita, tra Lilliput e Blefuscu sul modo di aprire l’uovo da bere, rompendo il guscio dalla parte grossa o da quella piccola. Una vera e propria guerra di religione, come ci ha raccontato Lemuel Gulliver, il più grande inviato di tutti i tempi.
So che questo esempio verrà accantonato dal ceto politico dei partiti di sinistra con un senso di fastidio, se mai ne verrà a conoscenza. E’ovvio che il guscio si rompe dalla parte…. Già, da quale parte si rompe il guscio senza urtare l’ortodossia? E qual è l’ortodossia? Senza tentennamenti, in difesa dei propri colori e dei propri simboli, i compagni rappresentanti di organizzazione intervenuti a Firenze hanno chiarito come la memoria del movimento e la storia futura stesse dalla loro parte; l’avere camminato con altri, l’indegna parte avversa, era un errore, irripetibile.
Un tempo anch’io ragionavo così; e anzi disprezzavo le mezze misure. Concordavo profondamente con la prima pagina del primo numero del manifesto quotidiano che condannava il riformismo come pericolosa eresia. Una pagina bellissima, appesa in redazione come un cimelio, anche se il pensiero sul riformismo si è evoluto, tra di noi della redazione e perfino tra i più irriducibili di noi. Ho imparato, nel corso del tempo che si può essere nello stesso tempo riformisti e rivoluzionari, su questioni diverse, e perfino conservatori su altre. Una persona viva è tante cose insieme. Per esempio Luigi Pintor sosteneva che il latino fosse indispensabile per la nostra cultura e formazione nazionale. Io pensavo che fosse un errore, una vera palla al piede, una forma di divisione di casta e di dominazione. Ora penso più semplicemente che avevamo un’idea diversa sul latino, dovuta forse a insegnanti più o meno competenti. Ieri una ragazza ha detto, durante una cena, che “I Promessi sposi” sono un romanzo insopportabile. Avrei voluto rampognarla, ma era quasi l’8 marzo, e non l’ho fatto. Ripensandoci ho capito che il suo era lo stesso atteggiamento anticonvenzionale che avevo io discutendo di latino con Pintor. Occorre essere tolleranti con gli errori degli altri, perfino, anche se so che è difficile, immaginare per un attimo che non siano errori, ma punti di vista differenti.
Col tempo ho imparato che nessuna persona umana ha un unico impegno, una militanza soltanto. Amartya Sen si diverte a fare gli elenchi delle appartenenze: una donna non è una cosa soltanto, ma è al tempo stesso, tutte in una volta, indiana, musulmana, maestra di scuola, attiva nel sindacato, amante della musica jazz, suonatrice di sitar, ecc, ecc. Io ho provato a descrivere mentalmente altre persone, a cominciare da quelle che mi stanno intorno. E’ difficile, non si va mai molto avanti, ma si riesce poi a capire meglio con chi si ha a che fare; e, finalmente, che si tratta di persone come me, disordinate come me, con pari diritti e pari aspirazioni.
Un’altra cosa che ho imparato è che si può cambiare idea. Ho cambiato idea sul ponte di Messina, quando ho saputo che non si poteva camminarci sopra come sul ponte nuovaiorchese di Brooklyn o sul Golden Gate Bridge di S. Francisco; ho cambiato idea sul nucleare: ai tempi del Candu, il reattore canadese, credevo fosse una forma di liberazione umana contro la natura matrigna. Poi ho imparato che non è la natura matrigna ma siamo noi umani a devastare e dilapidare. La tradizione comunista, in Italia, dentro e fuori il Pci, dentro e fuori la nuova sinistra, era nuclearista. Più o meno, tutti hanno cambiato idea. In ogni caso, se cambio idea io, devo ammettere che anche gli altri possano farlo, ma non strumentalmente, non per ipocrisia o calcolo deteriore, ma perché hanno imparato, hanno raggiunto un livello di conoscenza migliore, proprio come me. Questo atteggiamento più laico nei confronti del cambiare idea, proprio e altrui, l’ho imparato da Vittorio Foa. E’ un errore impedire agli altri di avere ragione anch’essi, rinfacciare loro di avere visto la luce, di avere capito la verità un po’ dopo, o molto dopo. Non esiste un tempo massimo. Tutto sta a non fare danni irreparabili.
Meglio: ogni danno è riparabile, solo che ci vuole più tempo. Magari un paio di generazioni. Forse con questo intendimento, ma forse è presuntuoso da parte mia attribuirglielo, i promotori dell'appello pubblicato sul manifesto il 13 febbraio 2009, che ha dato origine alla discussione del 7 marzo a Firenze, presso la Casa del popolo di Cintoia, hanno scritto una lettera ai responsabili politici dei partiti della sinistra in procinto di dividersi per le elezioni europee di giugno chiedendo una moratoria di una decina di giorni prima della decisione finale. Se sarà possibile un passo indietro e un accordo, benissimo. Altrimenti andrò a votare, disciplinatamente, rispettando la rottura dell’uovo in cui credo.

Fonte: il Manifesto

12 marzo 2009

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