E’ l’islam politico, bellezza…
Paola Caridi - invisiblearabs.com
Non è un caso che tra le prime reazioni alla buona performance del Partito Libertà e Giustizia, formazione che è diretta filiazione dell’Ikhwan egiziano, ci sia stata quella di Moussa Abu Marzouq, il numero due del bureau politico e lo stratega di Hamas.
In principio fu la vittoria di Hamas nel gennaio 2006. E non la vittoria del FIS algerino di 14 anni prima. Il (parziale) successo dei Fratelli Musulmani nel primo turno delle defatiganti e lunghe elezioni egiziane non va legato a quello che è successo nel 1991-92 in Algeria. Bensì a quella svolta partecipazionista dell’islam politico riformatore che si è realizzata soprattutto a partire dal 2005. Deve, cioè, essere inserito in un percorso che ha avuto la sua tappa più importante nell’inattesa vittoria del movimento islamista palestinese alle consultazioni politiche di cinque anni fa.
Non è un caso che tra le prime reazioni alla buona performance del Partito Libertà e Giustizia, formazione che è diretta filiazione dell’Ikhwan egiziano, ci sia stata quella di Moussa Abu Marzouq, il numero due del bureau politico e lo stratega di Hamas. Abu Marzouq avrebbe detto che “il popolo egiziano darà fiducia ai deputati che ha scelto e che il popolo egiziano continuerò a stare accanto al popolo palestinese così come ha fatto nella sua storia”. Una frase che, in un certo modo, rompe un modus operandi che Hamas ha mantenuto per decenni: mai immischiarsi nei fatti interni ai paesi arabi. Se Abu Marzouq ha espresso una sostanziale soddisfazione per il successo dei Fratelli Musulmani, non è solo perché il movimento islamista ha i suoi problemi riguardo alla scelta del posto in cui poter insediare il suo ufficio politico, ma anche perché Abu Marzouq condivide con la Fratellanza Musulmana egiziana la svolta partecipazionista del 2005.
L’Ikhwan, infatti, corse alle elezioni politiche egiziane dell’autunno 2005, conquistando ben 88 seggi attraverso candidature formalmente indipendenti, prima che Mubarak chiudesse i seggi nei turni successivi per evitare che la gente andasse a votare, nel silenzio colpevole dell’Occidente. Pochissime mesi dopo, anche Hamas corse per le politiche palestinesi, scegliendo però di presentare candidati forti e senza limitarne il numero. Vinse la maggioranza al parlamento palestinese, a differenza dei Fratelli Musulmani, che decisero di partecipare con un numero limitato, per non spaventare l’Occidente.
Dopo cinque anni, e la caduta di Mubarak, l’Ikhwan ha continuato sulla falsariga della svolta partecipazionista, presentandosi però come un competitor a tutto tondo. Pragmatico come sempre, e per questo estremamente cauto.
L’analisi di Khalil al Anani, che oggi su Al Masri el Youm ha fornito un quadro puntuale del comportamento della Fratellanza Musulmana, spiega perché l’Ikhwan ha sì pungolato il Consiglio Militare Supremo nelle ultime settimane, dopo l’approvazione degli emendamenti costituzionali che limitano in sostanza l’autorità politica a favore di un ruolo senza contrappesi delle forze armate. I Fratelli Musulmani, però, hanno anche deciso allo stesso tempo di non seguire del tutto la protesta di Tahrir. E di rispondere in questo modo alla richiesta di una parte dell’elettorato di essere tranquillizzata sul futuro prossimo del paese. La scelta dell’Ikhwan, insomma, è quella di un compromesso nel passaggio dei poteri dall’autorità militare a quella civile. Sperando, certo, che il gioco riesca, perché i militari non sembrano proprio propensi a cedere presto il potere, e soprattutto a cederlo tutto: la loro strategia sembra sempre di più quella – vecchia – di conservare il potere che l’esercito turco ha conservato sino a che non è arrivato il governo islamista di Erdogan.
L’Ikhwan, dice Anani, ha deciso una linea elitaria a scapito di una linea popolare. Può sembrare un paradosso, visto quanti voti ha ottenuto il Partito Libertà e Giustizia. E invece è un approccio interessante, quello di uno degli analisti più acuti dei movimenti islamisti: l’Ikhwan ha scelto le elezioni a scapito della spinta popolare, molto popolare che arriva da Tahrir, dove la media borghesia ha ceduto spazio e protesta ai ceti più disagiati e meno protetti. Al popolino, si sarebbe detto un tempo in Italia.
Tornando alle dinamiche di palazzo, se in Egitto fosse in corso solo l’inizio di un braccio di ferro tra Ikhwan e vertici militari, tutto sarebbe molto più facile da comprendere. C’è però la variabile salafita, che ha colpito quella fascia di analisti che di Medio Oriente e Nord Africa si occupano a corrente alternata. Non era difficile da prevedere un successo salafita, tanto è vero che la Fratellanza Musulmana dai salafiti ha preso subito le distanze, e soprattutto non ha fatto con loro un accordo elettorale, fallito alcuni mesi fa. I motivi sono vari. Anzitutto, i salafiti sono cresciuti all’ombra del regime di Mubarak (come spiega bene Aswani in molti suoi articoli). Le loro tv non sono mai state chiuse da Mubarak, perché erano un pungolo a destra dell’Ikhwan, perché rubavano consenso all’islam politico riformatore, perché mettevano in sonno l’opposizione al potere. Un potere che i salafiti descrivevano come inattaccabile perché all’interno di una concezione religiosa di colui che governa, secondo la quale il governante, tiranno o meno che sia, non deve essere contestato. Risultato: la base di consenso dei salafiti è cresciuta di pari passo a un conformismo religioso che ha fatto comodo anzitutto al regime di Mubarak. I frutti malati sono ora lì, nelle urne, e non ci possiamo far niente, se non consentire all’Egitto di vivere una transizione seria alla democrazia. Senza pensare che i vertici militari possano essere, per noi, il male minore che potrebbe la nostra strategia regionale, e dunque la frontiera con Israele.
E per ultimo, il nodo di Tahrir. La lettura corrente è che Tahrir abbia perso. Io sono invece convinta che, se le elezioni sono andate in questo modo e se vi è stata un’altissima percentuale di votanti, è perché Tahrir vigila su una democrazia colpita duramente dalla controrivoluzione. Con Ibrahim al Houdaiby (nel post di ieri ho citato un suo articolo su Al Ahram) penso che protesta ed elezioni vadano insieme, in Egitto. Né si può pretendere che Tahrir si possa sempre riempire di un milione di persone che premono sul potere (militare e di sicurezza) perché accetti una transizione reale alla democrazia. Tahrir è pungolo, e rimane tale. Rimane anche lo specchio di quello che noi non vogliamo vedere, come il pugno di ferro usato contro i civili attraverso i tribunali militari e gli arresti politici di queste ultime settimane. Tahrir non è, cioè, solo lo specchio inclemente per il potere e le forze politiche in Egitto. È anche lo specchio inclemente per noi – occidentali – che dell’Egitto ci occupiamo solo quando, sorpresi, scopriamo che in democrazia, spesso, non si sceglie il migliore. In Italia, così come in Egitto.
Fonte: http://invisiblearabs.com
3 Dicembre 2011