Dopo le rivolte arabe resta la disoccupazione
Luca Salerno
I “nuovi” regimi non cambiano le politiche economiche e le richieste dei giovani rimangono ignorate. E in molti casi la loro condizione è persino peggiorata.
É passato oltre un anno da quando i giovani arabi hanno conquistato prime pagine, editoriali, servizi esclusivi dei media di ogni angolo del globo. Per settimane le TV sono state inondate di analisi su questi ragazzi che "improvvisamente" sembravano aver voglia di libertà e di democrazia oltre che di "pane e lavoro". Questi giovani, cuore delle rivolte, sono stati dimenticati e le loro rivendicazioni, anche economiche, hanno lasciato il passo ad argomenti ritenuti piu' "rilevanti": l'ascesa dei Fratelli Musulmani, gli assetti regionali, l'Iran, Siria, Israele.
Ma, nonostante uno strato di polvere abbia iniziato a stabilirsi sull'intero processo politico, i responsabili politici in Medio Oriente sanno che la sfida più importante e difficile è e sarà quella di creare opportunità economiche per i propri cittadini. Il rischio, sempre più concreto, è quello che le elites locali continueranno a dominare il processo decisionale, invertendolo o plasmandolo a loro favore. Il vero cambiamento richiede non solo una apertura politica, ma anche un cambiamento nella distribuzione del potere economico e della ricchezza.
Fino ad ora le aspettative della popolazione, in particolare di quella giovanile, non sono state soddisfatte: nell'ultimo anno oltre 1 milione di egiziani ha perso il lavoro, mentre l'economia è entrata in recessione per la prima volta dopo decenni di costante crescita. In Tunisia -secondo dati della Banca Centrale- la disoccupazione è arrivata al 18%, +5% rispetto all'anno precedente, mentre il PIL si è ridotto di quasi il 2%. I paesi del Golfo, dal canto loro, stanno tentando di utilizzare i proventi del petrolio per creare posti di lavoro, quasi tutti nel settore pubblico, e prevenire movimenti di protesta.
"Quello che abbiamo visto è un'espansione della massa salariale del pubblico in molti paesi, – afferma Rachel Ziemba, senior analyst del Roubini Global Economics LLC- sia per migliorare il lavoro di quelli già impiegati sia per la creazione di posti di lavoro, ma in molti casi il rallentamento della crescita – in particolare nel Nord Africa – ha fatto perdere al settore privato posti di lavoro ". "Alla fine il duro lavoro di promuovere l'occupazione richiederà tempo. Si tratta di migliorare le competenze e l'istruzione, per compensare l'inadeguatezza delle qualifiche, e dei cambiamenti normativi." Tra il 2000 e il 2010, circa 7 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati nei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Anche se la creazione di posti di lavoro è destinata a rimanere elevata, due/tre milioni di nuovi cittadini del GCC potrebbero essere disoccupati entro il 2015.
In questo processo di ristrutturazione economica giocano un ruolo di primo piano le politiche proposte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. In Egitto, ad esempio, l'iniziale opposizione dei Fratelli Mussulmani alle politiche di queste due organizzazioni è velocemente evaporata. Il dimezzamento delle riserva valutarie estere costringe l'Egitto a cercare un finanziamento di circa 11 miliardi di dollari per i prossimi due anni ed l'attuale ministro delle finanze, Momtaz al-Saieed, ha invitato una delegazione del FMI per i colloqui. Allo stesso modo la Tunisia, come affermato dal Governatore della Banca Centrale Mustapha Kamel Nabli, è in cerca di 5 miliardi di dollari per coprire il deficit della bilancia di pagamenti che, quest'anno, potrebbe raggiungere il 7%. Tutto ciò nonostante il fatto che le recenti rivolte avessero come obiettivo le disastrose politiche neoliberiste implementate nel mondo arabo nell'ultimo ventennio che hanno facilitato il trasferimento di risorse verso l'esterno a prezzi di svendita.
Ad approfittarne, come sempre, sono stale le grandi potenze mondiali. La politica della Banca Mondiale e dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stata basata sullo sviluppo guidato dal settore privato e dall'offerta di lavoro a basso costo, senza nessun reale investimento sul capitale sociale, dato che, nei paesi ricchi di petrolio, i profitti provengono dalla rendita e non dalla produttività basata sulla conoscenza. Quello che era stato prospettato come uno sviluppo roseo guidato dal settore privato nel mondo arabo si è rivelato un disastro sociale. Invece di crescita e occupazione, il risultato netto è stato, in media, scarsa crescita e pochi posti di lavoro.
Tutto ciò ha portato, in generale, ad una restringimento delle libertà civili piuttosto che ad un allargamento dei diritti sociali e politici ed, in particolare, ad un peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Si è passati da una economia basata su una regolare distribuzione del settore pubblico, caratterizzato da un di tipo paternalistico, ad una basata su un settore privato profondamente diseguale e su un settore pubblico privatizzato.
Il rischio per i partiti islamici è quello di ricadere negli errori politici e perpetuare le stesse politiche economiche e sociali dei precedenti regimi: il cambiamento, che la popolazione chiede, deve prima di tutto prevenire la svendita di risorse e utilizzarle per lo sviluppo dell'economia nazionale. Solo così sarà possibile porre le basi per un sviluppo futuro e per la creazione di posti di lavoro. La storia passata ha infatti dimostrato l'impossibilità, almeno per i paesi arabi, di creare occupazione solo attraverso l'espansione del settore privato e l'aumento della produttività.
Lo Stato deve iniziare ad agire da datore di lavoro di ultima istanza, come sottolinea il professore Ali Kadri, creando occupazione pubblica e socialmente rilevante. L'equità deve precedere l'efficienza almeno fino a quando la rivalorizzazione del lavoro socialmente utile inizi a pagare.
Fonte: Nena News
3 settembre 2012