Dopo Copenhagen, quali politiche?


Mario Pianta


Strategie anomale e restrittive, nell’industria come nei servizi, creano ostacoli alla ripresa e mettono in pericolo economie locali, reti di subfornitura, occupazione e redditi…


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Dopo Copenhagen, quali politiche?

Il tasso di disoccupazione al 10% negli Stati Uniti e in molti paesi europei mostra quanto sia ancora grave la crisi. Quale sarà il volto dell'economia reale, delle strutture produttive, dopo la fine della recessione? I protagonisti – le grandi imprese – hanno licenziato, chiuso impianti e trasferito produzioni all'estero, hanno tagliato investimenti e ricerca, aperto la caccia alle acquisizioni di imprese in difficoltà, concentrato le attività nei centri produttivi maggiori e nei settori del core business. Queste strategie, nell'industria come nei servizi, creano ostacoli alla ripresa e mettono in pericolo economie locali, reti di subfornitura, occupazione e redditi.
Sono problemi comuni ai paesi europei, ma particolarmente seri per gli anelli più deboli delle catene produttive, come l'Italia, dove da dieci anni la produttività del lavoro è ferma. Ad aggiornare quest'immagine ci sono i nuovi dati Istat sulle «Misure di produttività», che registrano, dopo variazioni del -0,3% in media tra il 2000 e il 2004, un +0,2% tra il 2004 e il 2008: i livelli di produttività del lavoro sono sostanzialmente fermi a quelli di dieci anni fa, e la crisi farà scivolare più in basso i dati del 2009. Tutto questo a fronte di tassi di crescita ben più sostenuti non solo nei nuovi paesi industriali, ma anche nei vecchi paesi del Nord Europa e in Germania.
Il «decennio perduto» della produttività italiana è il risultato della scelta di lasciar fare alle imprese (o ai «miracoli» dei distretti), confidando che decisioni individuali di mercato potessero assicurare non solo maggior efficienza di breve periodo nell'allocazione delle risorse, ma anche sagge scelte di lungo termine nello sviluppo di nuove tecnologie, investimenti e produzioni. Le politiche industriali e dell'innovazione – che avevano avuto un ruolo centrale nello sviluppo dell'Europa del dopoguerra – sono state dimenticate, travolte dal pensiero unico liberista. Il risultato è stato soltanto il declino industriale. L'Italia, e buona parte dell'Europa, si ritrovano su traiettorie tecnologiche tradizionali, con vecchi prodotti, scarsa ricerca e innovazione, una bassa dinamica della domanda e un pesante impatto ambientale delle produzioni.
Le decisioni sul futuro della struttura produttiva italiana ed europea devono essere riportate all'interno della sfera pubblica. Una nuova generazione di politiche può superare i «fallimenti» del passato e introdurre interventi creativi e selettivi. Gli obiettivi delle politiche industriali e dell'innovazione dovrebbero favorire lo sviluppo di conoscenze, tecnologie e attività economiche che migliorino le prestazioni economiche, le condizioni sociali e la sostenibilità ambientale. Favorendo attività e settori caratterizzati da processi di apprendimento, rapido cambiamento tecnologico e forte crescita di domanda e produttività. Un elenco preliminare delle attività da privilegiare può comprendere la conoscenza, l'informazione e comunicazione, l'ambiente e le energie rinnovabili, la salute e il welfare.
Sul sito www.sbilanciamoci.info proponiamo forme e contenuti che le politiche industriali e per l'innovazione potrebbero assumere. Per fermare la scomparsa di attività produttive, per accelerare l'uscita dalla recessione, per spostarsi – dopo Copenhagen – su una traiettoria di sviluppo sostenibile.

Fonte: il Manifesto

20 dicembre 2009

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