Diritto al ritorno e questione palestinese
Maurizio Musolino
Riaffermare il valore della risoluzione Onu 194 del 1948 è un elemento imprescindibile per far avanzare qualsiasi ipotesi di pace fra Israele e palestinesi.
Guardare il Medio Oriente dal Libano consente di avere un punto di vista privilegiato che aiuta a capire meglio dinamiche e contraddizioni che quella parte del mondo vive e subisce. L’occasione è venuta con il viaggio che anche quest’anno il Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila ha compiuto nella seconda metà di settembre nel Paese dei Cedri in occasione del massacro che 28 anni fa ha fatto strage di donne, bambini e anziani, colpevoli solo di voler vivere con dignità la propria diaspora. Al centro degli incontri la questione del diritto al ritorno.
Un diritto, quello dei palestinesi a poter ritornare nelle case dei propri padri, sancito dalla legalità internazionale, che sia attraverso la Convenzione di Ginevra che nella risoluzione 194 del 1948 delle Nazioni Unite ne specifica inequivocabilmente il senso [1]: Un diritto che riguarda circa 400mila palestinesi rifugiati in Libano, 500mila in Siria, un milione e mezzo in Giordania, oltre 800mila in Cisgiordania e Gaza; per un totale che nel mondo si avvicina ai cinque milioni. Un diritto da sempre negato.
Negato innanzitutto da Israele, che in questi decenni ha scientificamente modificato anche geograficamente il contesto dove sorgevano i villaggi originari di tantissimi rifugiati. Oggi infatti molti di questi villaggi situati per lo più nell’antica Galilea non esistono più, ridotti a cumuli di pietre, a riserve naturali o a nuove “moderne” colonie per neoebrei provenienti soprattutto dall’est Europa. I vari governi che si sono succeduti a Tel Aviv – di destra e di sinistra – hanno sempre visto nell’affermazione del diritto al ritorno la negazione della possibilità di costruire uno stato confessionali, ebraico, in grado di relegare alla condizione di cittadini di serie B quanti non si professano di religione giudaica. A questo proposito è sempre utile ricordare che circa un milione e duecento mila arabo-palestinesi, il 20% della popolazione israeliana, è al momento cittadino di Israele. Non è un caso, quindi, che anche nel periodo forse più alto del dialogo fra palestinesi e israeliani, i tempi oramai remoti di Oslo e delle trattative fra Arafat e Rabin, la questione dei rifugiati e dei loro diritti sia stata sempre un tabù insuperabile. Rifugiati e crescita demografica sono infatti temuti da Israele più delle armi e delle ipotetiche pressioni internazionali, tanto più oggi che la questione della costruzione di uno stato ebraico è attualissima.
Un tema, quindi, fastidioso e scomodo, tanto da essere rimosso da tutte le trattative, e non solo per responsabilità di Israele. Un atteggiamento che ha segnato per oltre un decennio anche la vita palestinese, sancendo una frattura profondissima fra i dirigenti palestinesi che avevano percorso la strada di Oslo (dando vita all’Anp – l’Autorità nazionale palestinese) e i milioni di rifugiati che si sentirono traditi e abbandonati da questi ultimi. Per anni nei vicoli dei campi profughi di Siria e Libano era pressoché impossibile vedere i volti di Arafat e i simboli della sua organizzazione. Solo dopo il rifiuto di sottomettersi a Barak e Clinton e l’assedio alla Muqata il padre del nazionalismo palestinese riconquistò consensi fra questa gente, ridando così agibilità politica anche alla sua organizzazione, Al Fatah. Oggi non c’è palestinese che non sia pronto a ribadire l’irrinunciabilità del diritto al ritorno, una vera e propria bandiera nella lotta per l’indipendenza, anche se fuori dall’ufficialità si fa strada, specie fra quanti abitano e vivono nei territori occupati da Israele nel 1967, l’idea di una soluzione che contemplerebbe la naturalizzazione dei profughi palestinesi negli stati che da oltre mezzo secolo li ospitano. Del resto oggi i rifugiati non hanno neanche una reale rappresentanza politica nel movimento di liberazione palestinese. L’Olp, che li includeva, vive una crisi profondissima e nonostante i proclami di volerlo rifondare non si vedono segni tangibili in questa direzione. L’Anp dal canto suo rappresenta – dopo la frattura con Hamas e Gaza – solo parte dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Gli altri sono rappresentati direttamente da forze politiche quali Hamas, gli schieramenti della galassia islamica, il Fronte popolare, Fronte democratico, Fida, Partito comunista, Partito del popolo… Un elenco lunghissimo, rappresentazione di una frantumazione figlia di questa epoca storica.
A fronte di tutto questo c’è in Libano l’inserirsi di questo fattore in un contesto nazionale anomalo. Il Libano è uno stato la cui ossatura è costruita sulla centralità del confessionalismo. Un disegno pensato dalla Francia nel tentativo di assicurarsene il controllo anche dopo l’indipendenza. Il disegno di Parigi era chiaro: il confessionalismo avrebbe assicurato privilegi ai maroniti [2] preservando il carattere francofono dello Stato. Con gli anni, soprattutto a seguito della guerra civile che ha insanguinato il Libano dal 1975 al 1990, questo patto è stato rivisto e modificato, senza però mai intaccarlo nella sua essenza. Oggi per convenzione il presidente della Repubblica è sempre maronita, mentre il presidente del consiglio è sunnita, per gli sciiti – numericamente il gruppo più numeroso – resta la terza carica dello Stato, la presidenza dell’assemblea parlamentare. Dal lontano 1936 nessun censimento è stato in grado di disegnare il reale peso delle confessioni e ogni volta che si è tentato di rivederne le proporzioni numeriche il clima politico si è a dir poco infiammato. Tutto il Libano segue questo tipo di struttura: per confessioni sono divisi i collegi elettorali, la gestione degli ordini professionali e perfino la giustizia. Ogni cittadino è giudicato da un tribunale della sua confessione. Tutti i cittadini del Libano, infine, sono censiti per credo religioso e questo viene obbligatoriamente inserito nei documenti. E’ chiaro in questo ambito l’effetto deflagrante che i 400mila profughi – al 90% di religione sunnita -, potrebbero avere su un totale della popolazione di circa 4 milioni di abitanti. Da qui le origini dell’ostilità verso questi uomini e queste donne specialmente da parte della comunità maronita. Nel campo islamico invece da anni si assiste ad una vera e propria competizione fra sunniti e gli sciiti, che grazie ad Hezbollah e all’impegno di questi nel contrastare l’aggressività israeliana con una resistenza efficace e a volte persino vittoriosa (vedi la liberazione del sud nel 2001 e la guerra del 2006) hanno negli anni sempre di più esercitato fascino e ascendente fra tutti i palestinesi.
Una premessa lunga ma indispensabile per inquadrare la questione del diritto al ritorno e le ripercussione che oggi questa ha negli scenari mediorientali. Sul fronte interno libanese il diritto al ritorno, da tutti a parole auspicato e appoggiato, si scontra con una assenza di diritti materiali. I palestinesi che vivono nel Paese dei cedri non possono svolgere un gran numero di professioni – le più qualificate -, non hanno diritto alla proprietà, vedono limitarsi la possibilità di spostamento, non possono organizzarsi in associazioni, partiti o sindacati. Inoltre i costi elevatissimi e un sistema di privatizzazioni selvaggio, li esclude in pratica da una adeguata copertura sanitaria e dalla possibilità di studiare. Uno scenario che sta trasformando questo popolo, un tempo punta di diamante dell’intellettualità mediorientale e oggi sempre di più sottoproletariato urbano disgregato e bisognoso di assistenza.
Da qui deriva il rischio, che la nostra permanenza in Libano ha confermato, del tentativo di privare la questione dei profughi della sua politicità: del legame strettissimo con la lotta di liberazione nazionale del popolo di Palestina; del carattere di contrasto verso il sionismo e il controllo coloniale che gli Stati Uniti vogliono perpetuare nella regione attraverso Israele. In questo modo il tema dei rifugiati palestinesi diverrebbe da qui a pochi anni una mera questione umanitaria, trasformandoli in una sorta di “zingari del medioriente” da assistere e controllare e a volte reprimere. Una fastidiosa questione da affrontare con misure tampone in attesa magari che si creino le condizioni per operazioni più drastiche e radicali. Del resto la storia recente della regione insegna: Sabra e Chatila non è stato un incidente di percorso e il fatto che a quasi trenta anni dal massacro non ci siano colpevoli conclamati da una giustizia ne è la dimostrazione evidente. Inoltre anche la civile Europa (con la Francia) in queste settimane ci ha ben mostrato di cosa è capace.
Essere impegnati nella difesa di questo diritto è allora una operazione nello stesso tempo attualissima e di netto contrasto con lo stato attuale delle cose. Riaffermare il valore della risoluzione Onu 194 del 1948 è un elemento imprescindibile per far avanzare qualsiasi ipotesi di pace fra Israele e palestinesi. Da qui una considerazione che riguarda gli effetti esterni del tema rifugiati. Fra i palestinesi che vivono in Libano nessuno sembra credere alla possibilità che le trattative che vedono impegnati Abu Mazen e Netanyahu possano portare a qualcosa di concreto. Lo scetticismo è totale, anche se fra le varie componenti politiche si leggono differenziazioni nell’approccio al tema. Se fra le forze vicine all’Anp e a Fatah si ribadisce, come era inevitabile e giusto, di andare a vedere il bluff israeloamericano ponendo però punti qualificanti come la questione di Gerusalemme, il blocco delle colonie e il tema del diritto al ritorno, più drastico è il giudizio dei partiti della coalizione anti Anp guidati da Hamas che ritengono il solo essersi seduti davanti ai rappresentanti di Israele una forma di tradimento della lotta palestinese. Nello specifico Hamas sembra voler giocare su più tavoli: da una parte c’è la volontà di diventare campioni dell’intransigenza e di capitalizzare quanto sta accadendo a Gaza, dall’altra l’organizzazione islamica cerca un riconoscimento internazionale da parte degli Stati Uniti e lo fa attraverso un rapporto sempre più stretto con la Turchia di Erdogan, capofila imprescindibile della Nato.
A questo punto merita una riflessione a parte il tema delle flottiglie internazionali dirette a Gaza con l’obiettivo di rompere il criminale embargo. Senza dubbio quanto accaduto nella scorsa estate con gli atti di pirateria marina da parte di Israele ha riacceso la sensibilità verso la condizione in cui vivono un milione e mezzo di palestinesi rinchiusi in quel carcere a cielo aperto che è appunto la Striscia di Gaza. Intorno alle flottiglie si è coagulata gran parte della solidarietà internazionale mettendo in moto processi di emulazione che proprio nelle prossime settimane si concretizzeranno con il tentativo di altre imbarcazioni e di carovane via terra di raggiungere le coste e i territori palestinesi. Tutto questo non può non farci interrogare sul carattere di queste iniziative. A partire dal costo. Organizzare una nave ha costi altissimi, che solo organizzazioni parastatali – quando non direttamente gli stessi stati – o network internazionali possono sopportare. Si torna così indietro di qualche decennio quando la questione palestinese era completamente in mano agli stati “fratelli”. Senza voler nulla togliere al valore di questa forma di lotta credo che i comunisti, e più in generale la sinistra e i progressisti di tutto il mondo, si devono porre il problema di come recuperare un protagonismo, anche mediatico, in grado di fare breccia nelle coscienze. Un protagonismo al momento inesistente. Non serve voltarsi dall’altra parte, o assicurare un poco convinto sostegno alle navi, o ancora pensare che basti contrapporre a queste iniziative gli antichi e logorati rapporti con alcune realtà dei Territori occupati.
Una possibile iniziativa potrebbe essere l’organizzazione di una carovana internazionale “progressista” capace di entrare prima a Gaza e poi in Cisgiordania passando da Rafah e quindi dall’Egitto. Una carovana dalla forte connotazione politica – l’intera questione palestinese, non bisogna mai stancarsi di ribadirlo, non è umanitaria – ma anche in grado di portare alle popolazioni stremate quell’aiuto concreto indispensabile a dare credibilità all’intera iniziativa. Le difficoltà per una iniziativa di questo tipo sono però enormi, prima fra tutte il dover superare le divisioni interne ai palestinesi che oggi indeboliscono sia la resistenza interna che la solidarietà internazionale. Senza sottovalutare le debolezze endemiche della sinistra europea. Divisioni che abbiamo potuto toccare con mano anche nel nostro soggiorno libanese. Da due anni gli incontri con i due principali schieramenti politici palestinesi fra i rifugiati (quello guidato da Fatah e quello guidato da Hamas) avvengono in luoghi e momenti diversi. E non si riesce a trovare forme di unità neanche per il giorno in cui si ricorda il massacro di Sabra e Chatila. Quel che è peggio è la sensazione che le divisioni all’interno dei campi siano per lo più importate e che al di là degli schieramenti segnino un ulteriore distacco fra la società palestinese e i rappresentanti politici.
Una situazione complessa, quindi, e bisognosa di analisi fuori da ogni retorica. La consapevolezza che l’occupazione israeliana ha negli anni trasformato sia la società civile di Israele sia quella palestinese è un obbligato punto di partenza, ma serve il coraggio di scelte e interlocuzioni a tutto campo. Ad iniziare da un nuovo approccio che recuperi la storia e l’ipotesi di uno stato unico, al momento lontanissimo, ma che lo svilupparsi delle colonie rende inaspettatamente attuale. Uno dei tanti paradossi che la storia ci regala.
[1] (Risoluzione 194 – 1948: L'Assemblea Generale, dopo aver esaminato ulteriormente la situazione in Palestina, (…) 13. Risolve che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere consentito di farlo al più presto possibile, data, e che il risarcimento deve essere pagato per le proprietà di coloro scelto di non ritorno e per la perdita o il danneggiamento di proprietà che, in virtù dei principi del diritto internazionale o al patrimonio netto, deve essere compiuto dai governi o le autorità competenti; Incarica la Commissione di Conciliazione per facilitare il rimpatrio, il reinsediamento e della coesione economica e sociale di riabilitazione dei profughi e il pagamento di un indennizzo, e di mantenere stretti rapporti con il direttore della Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi e, attraverso di lui, con gli opportuni organi e agenzie delle Nazioni Unite…).
[2] La Chiesa maronita è nell’alveo della Chiesa cattolica, pur mantenendo riti e liturgia derivanti dalla tradizione siro-antiochena. Il patriarca viene eletto dal Sinodo dei vescovi e soltanto dopo l'elezione fa professione di comunione con il pontefice romano. I maroniti sarebbero discendenti della mescolanza di popoli che viveva in Siria e in Libano prima dell'arrivo degli arabi (essenzialmente siriaci-aramei e greci), successivamente mescolatisi anche con i crociati europei. La Chiesa maronita prende il nome dal suo fondatore, san Marone († 410), che la istituì nel IV secolo. Fin dalle origini la comunità maronita seguì il Patriarca di Antiochia. All'epoca delle Crociate i maroniti entrarono in comunione con la Chiesa di Roma. In seguito, furono protetti dalla Francia, anche durante il periodo ottomano.
Fonte: http://www.oltre-confine.it
novembre 2010