Dietro l’ “inferno” di Bala Murghab


Emanuele Giordana - Lettera22


Fuoco amico e convivenze difficili. Avvolta ancora dall’incertezza la fine di Luca Sanna, ucciso da un afgano in divisa nell’avamposto Highlander, nel Nord dell’Afghanistan. E’ il 36mo militare italiano deceduto nel Paese asiatico.


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Dietro l' "inferno" di Bala Murghab

L'avamposto Highlander si trova a circa 10 km dalla principale base italiana nella valle del Murghab, la Columbus: una “base avanzata” comunemente nota come Bala Murghab, dal nome della città che si trova a 200 chilometri da Herat, la “capitale” dove risiede il comando Nato Ovest dell'Afghanistan a guida italiana, uno dei quattro settori (più quello di Kabul) in cui l'Alleanza ha diviso il Paese.
L'”inferno” di Bala Murghab (la definizione è di Gianandrea Gaiani, il direttore di “Analisi Difesa) è un'area vasta e difficile da controllare tanto che vi si trovano oltre una ventina di avamposti (in gergo Cop) contro i tre-cinque comunemente associati alle altre tre basi avanzate (in gergo Fob) che, con quella nel Murghab, costituiscono l'ossatura della presenza militare spagnola, lituana, americana e italiana delle quattro province (Ghor, Badghis, Farah, Herat) controllate dal comando Ovest.
La valle del Murgahb presenta non pochi problemi: quasi al confine col Turkmenistan, è un luogo difficile da raggiungere e rifornire e le piste che vi ci arrivano sono luoghi ideali per agguati e assalti. Oltre venti avamposti raccontano la difficoltà della gestione di un vasto territorio di sabbia, pietre e montagne. Ma le difficoltà non sono semplicemente quelle della messa in sicurezza del territorio dal solo punto di vista militare: c'è almeno un altro grosso problema, diciamo “interno”. Un problema politico sotto diverse angolazioni: la convivenza tra eserciti diversi, sia che si tratti di commilitoni europei, di compagni di strada afgani, o dei riottosi colleghi americani, poco propensi a farsi dire da qualcun altro, nonostante sia chiaro che il comando è italiano, cosa si deve fare.
A questo problema va fatto risalire l'episodio di ieri ancora gravato da una ricostruzione incerta. Chi ha effettivamente ucciso il militare italiano ferendo gravemente il suo compagno? Davvero un afgano ribelle infiltrato nei ranghi dell'esercito? O uno dei tanti soldati arruolati in tutta fretta per raggiungere il target fissato dalla Nato per il “nuovo” esercito afgano? Neo soldati spesso analfabeti, che conoscono le armi per un passato da mujaheddin o da banditi o che, più semplicemente, han sostituito la vanga col kalashnikov per guadagnarsi la (magra) pagnotta? Molti di questi soldati, e ancora peggio è tra la polizia, sanno poco di arte militare e ancor meno di arte del diritto. Il training è lungo e difficoltoso e spesso fa capo (anche se non è questo il caso) a uomini arroganti o, peggio, a contractor: gente non abituata a insegnare a chi viene da un'altra cultura che non sia la sua. E' in questa cornice che sono maturati più di un episodio di “fuoco amico”: persone che sparavano all'istruttore per una frase mal detta o un'offesa magari (all'istruttore) incomprensibile. E accade anche che un soldato, istruito a Kabul, vada a finire in tutt'altro posto, con tutt'altra gente, con tutt'altri istruttori.
Poi c'è il problema della convivenza tra i “colleghi” europei e americani. Un insegnamento prezioso viene dal caso Farah: diversi anni fa fu deciso che la zona di Farah, benché con presenza americana, venisse attribuita agli italiani. I militari americani erano d'accordo ma poi la direttiva venne messa in frigorifero. E benché gli italiani “comandassero” a Farah, in realtà a Farah comandavano gli americani. Il motivo risiedeva in uno scontro tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato: gli uni volevano mollare la patata agli italiani (com'è ora avvenuto) e rimpinguare altre zone di prima linea coi marine sottratti a Farah. I diplomatici volevano invece “mantenere una finestra” sull'Iran, Paese confinate e sull'orlo di un possibile conflitto.
L'effetto del tira-molla è stato che adesso gli italiani si trovano a gestire nel SudOvest afgano una situazione in cui le tecniche militari americane, ben più invasive, han fatto terra bruciata e reso più difficile il lavoro ai soldati tricolori che, non a caso, hanno lasciato sul terreno cinque uomini in poco meno di due mesi.
La storia poco raccontata dell'inferno di Farah è un po' la stessa dell'inferno di Bala Murghab. Non perché siano situazione identiche (anzi) ma perché fanno parte della grande confusione che regna in quella guerra. Dove al fischiare delle pallottole si mischia la nebulosa mai risolta di cosa stiamo facendo e quale strategia stiamo seguendo in quelle terre lontane.

Fonte: Lettera 22, Il Manifesto

19 gennaio 2011

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MORTE A BALA MURGHAB

Luca Sanna, il militare italiano morto ieri in Afghanistan, è stato ucciso con un colpo alla testa da un terrorista in divisa. È questa la versione ufficiale sulla morte del trentaduenne alpino oristanese vittima, assieme a un commilitone ferito, di uno scontro a fuoco nell'avamposto Highlander, uno dei tanti distaccamenti che costituiscono la cintura di sicurezza intorno alla base principale del contingente italiano a Bala Murghab. Due le ipotesi in campo: la più probabile parla di un terrorista camuffato con un'uniforme dell'esercito afgano; la seconda di una strategia talebana per infiltrare le truppe di Kabul e compiere azioni di questo genere. Entrambe escludono comunque la possibilità che il caporale maggiore Sanna possa essere stato vittima di fuoco amico, ipotesi emersa quando le dinamiche dell'attacco erano ancora tutte da chiarire e le ricostruzioni sottolineavano che a sparare era stato un uomo con l'uniforme di Kabul.

“Non lo si può chiamare fuoco amico”, ha spiegato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che oggi alle 16 riferirà in Parlamento su quella che ieri ha definito una ricostruzione complessa.“Era un nemico, mascherato con una divisa afgana e con l’aria di una persona di cui ci si può fidare”, ha aggiunto. Il ministro ha atteso il pomeriggio per spiegare la dinamica dell'agguato. L'avamposto di Highlander era controllato all'intero dai militari italiani e all'esterno da sette o otto soldati afgani. Passato da poco mezzogiorno, ora italiana, un afgano, forse un militare vero o un guerrigliero vestito da soldato, si è avvicinato alla entrata della base e ha mostrato il suo fucile apparentemente inceppato. Quando i due alpini si sono avvicinati l'uomo ha aperto il fuoco colpendo alla testa Luca Sanna e al collo e al torace l'altro alpino, le cui condizioni si sono aggravate in serata. La notizia della morte del 36esimo militare italiano in Afghanistan dall'inizio della missione nel 2004 è arrivata a pochi minuti dalla conclusione della cerimonia d'insediamento del nuovo Capo di Stato maggiore della Difesa, il generale degli alpini Biagio Abrate, subentrato al generale Vincenzo Camporini che ha lasciato l'incarico dopo tre anni di mandato. Ma soprattutto è giunta quando sono trascorse meno di due settimane dall’attacco di La Russa ai vertici militari, accusati di poca chiarezza sulla morte del caporale maggiore Matteo Miotto, colpito da un cecchino il 31 dicembre nel distretto di Gulistan, nel ovest dell'Afghanistan. Critiche cui Camporini aveva replicato smentendo l'accusa di aver fornito versioni discordanti per “indorare la pillola”, così parlò il titolare della Difesa. Da qui la richiesta dell'opposizione di raccontare tutta la verità su Sanna. “Il minimo che lo Stato deve dire ai parenti”, secondo il Partito democratico.

Il ministro ha ricordato quella che da qualche tempo è diventata la nuova minaccia per i militari italiani nel Paese asiatico: non più ordigni esplosivi rudimentali piazzati sul ciglio della strada, ma veri e propri scontri a fuoco. D'altronde ha sottolineato La Russa gli italiani non stanno più soltanto dentro le basi fortificate, ma mirano a controllare il territorio con avamposti di pochi metri quadrati difesi dai militari italiani e afgani. “E quindi”, ha aggiunto. “sono più soggetti ad attacchi, sparatorie e conflitti con gli insorti”. Una situazione che per l'opposizione ripropone il problema dell'azione dei soldati italiani nel Paese.

“Siamo certi che il nostro contingente stia rispettando il mandato assegnatogli dal Parlamento. Non dimentichiamo che questo mandato è molto diverso da quello assegnato ai militari inglesi e americani” ha scritto in una nota l'eurodeputato del Pd Pino Arlacchi relatore per il Parlamento europeo sulla Nuova Strategia dell'Ue in Afghanistan, “I nostri soldati sono lì per proteggere la popolazione locale e gli interventi a favore della ricostruzione. Non possono fare la guerra e non possono partecipare a operazioni congiunte con le forze speciali Usa, dirette a decapitare la leadership talebana”.Tra messaggi di cordoglio delle più alte cariche dello Stato; attestati di solidarietà con la famiglia dell'alpino morto; richieste di ritiro delle truppe di Italia dei valori e Federazione della sinistra; note del ministero degli Esteri sugli sforzi italiani “per la stabilizzazione dell'Afghanistan ed accelerare il processo, già avviato, di transizione ed afganizzazione”, spicca la dichiarazione del deputato Pdl, Margherita Bonivier. La presidente del comitato Schengen ha parlato di un teatro di guerra sempre più pericoloso”, ma soprattutto, ha auspicato da un lato una “forte iniziativa per un armistizio tra le parti”, tra talebani e governativi, dall'altro “una cooperazione sempre più efficace per poter permettere all'Afghanistan di avere piena responsabilità della propria sicurezza”.

di Andrea Pira

Fonte: Lettera 22

19 gennaio 2011

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