Dialogare con Teheran
Samantha Power, Internazionale
La politica degli Usa verso l’Iran sembra passare da una crisi immaginaria all’altra. Nel frattempo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato nuove sanzioni contro l’Iran, accusato di non voler rinunciare all’arricchimento dell’Uranio.
Secondo un rapporto della marina degli Stati Uniti, all'inizio di gennaio alcune imbarcazioni iraniane si sono avvicinate a navi militari americane nello stretto di Hormuz e hanno lanciato un minaccioso messaggio radio che diceva: "Esploderete".
Il presidente Bush ha subito dichiarato che l'Iran espansionista e fondamentalista aveva ripreso a usare i soliti metodi e che avrebbe fatto "tutto il necessario per difendere gli interessi americani". Per un attimo sembrava che lo scontro fosse imminente.
C'era solo un piccolo problema: i funzionari del Pentagono si sono accorti che la registrazione era sospetta e hanno dovuto rimangiarsi l'accusa. Questo falso allarme è emblematico dell'incoerenza della politica statunitense verso Teheran: l'amministrazione Bush cerca di provocare l'indignazione della comunità internazionale denunciando dei pericoli imminenti, che poi vengono regolarmente smentiti.
L'episodio dello stretto di Hormuz ricorda l'accusa lanciata dalla Casa Bianca all'Iran sul programma nucleare militare avanzato: a dicembre questa illazione è stata smentita addirittura dalla National intelligence estimate dei servizi segreti statunitensi.
Perfino agli occhi dei più stretti alleati di Washington, la politica americana sull'Iran sembra passare da una crisi immaginaria all'altra. Ma tra le esagerazioni degli Stati Uniti e l'indifferenza del resto del mondo c'è una verità incontestabile: l'Iran, il paese più popoloso e ricco del golfo Persico, è governato da un regime che arresta e tortura i suoi oppositori e che alimenta la destabilizzazione all'estero.
Quello di cui l'America ha bisogno è una politica sensata e sostenibile per difendere i suoi interessi economici e la sua sicurezza, ottenere l'appoggio della comunità internazionale e non impantanarsi in Medio Oriente. Ma come dovrebbe essere questa politica?
Per trovare la risposta, Washington dovrebbe rendersi conto che il suo atteggiamento ha rafforzato la Repubblica islamica iraniana. Pur denunciando l'influenza che Teheran esercita sul nuovo Iraq, l'amministrazione ha speso miliardi di dollari per sostenere un governo iracheno che dà troppo ascolto
all'Iran. Le minacce di un intervento militare degli Stati Uniti hanno offerto un appiglio al presidente iraniano Mahmoud Admadinejad, aiutandolo a mantenere il potere appellandosi al patriottismo.
E la cacciata di Saddam Hussein e dei taliban, combinata con il declino dell'influenza statunitense nella regione, ha creato un vuoto del quale l'Iran ha approfittato per allargare la sua influenza.
L'ultima strategia di Bush è cercare di contenere l'Iran armando i paesi sunniti della regione, come l'Arabia Saudita e gli stati del Golfo. Questa strategia trova le sue radici nella vecchia regola della guerra fredda secondo cui bisogna appoggiare un regime "figlio di puttana", purché sia "il nostro figlio di puttana". In base a questa logica, negli anni ottanta, Washing ton ha aiutato sia Osama bin Laden sia Saddam Hussein.
Ma dopo l'11 settembre Bush ha dovuto riconoscere che coccolare i nemici dei nostri nemici non era bastato a farli diventare nostri amici, anzi aveva contribuito a diffondere l'estremismo. E oggi i governi arabi, per evitare rapporti troppo stretti con la Casa Bianca, flirtano con la Russia, la Cina, l'India e tutti i paesi che si contendono i loro favori.
Una nuova politica verso l'Iran dovrebbe partire dalla premessa che ogni paese che costituisce un problema può anche esserne la soluzione. Nessuna delle tensioni con l'Iran può essere risolta senza la collaborazione di Teheran. È più facile che Washington riesca a modificare l'influenza iraniana in Iraq – ma anche in Afghanistan, nei territori palestinesi e in Libano – che non a eliminarla. Per farlo dovrebbe comportarsi diversamente.
Questo significa evitare di ribadire che "potrebbe" ricorrere alla forza, perché così non fa altro che rafforzare la posizione degli islamisti più intransigenti e dei nazionalisti. Significa intensificare i rapporti culturali con il popolo iraniano, aggirando il regime con l'aiuto di Voice of America e di internet. E significa cercare di avviare negoziati ad alto livello.
Dialogare non significa necessariamente fare concessioni. È vero che i tentativi di dialogo fatti finora non hanno prodotto grandi risultati. Ma la disponibilità a negoziare potrebbe comunque attenuare l'immagine arrogante degli Stati Uniti e ricordare al mondo la necessità di convincere l'Iran a collaborare su questioni di comune interesse, come evitare la dissoluzione dello stato in Libano, in Iraq e in Afghanistan e risolvere il problema dei rifugiati iracheni.
Dialogare con l'Iran non garantirà un miglioramento dei rapporti tra Washington e Teheran o una maggiore stabilità nella regione del Golfo. Ma non dialogare potrà solo peggiorare la situazione. Più tempo aspettano gli Stati Uniti a rivedere la loro politica verso l'Iran, più alte saranno le probabilità che la prossima crisi sfoci in un vero e proprio conflitto.
FONTE: INTERNAZIONALE n. 732
PUBBLICATO IL 21 FEBBRAIO 2008