Di re, presidenti e candidati


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Re e presidenti che provano a salvare se stessi. Candidati post-islamisti che emergono. Cosa succede nelle rivoluzioni democratiche arabe.


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Di re, presidenti e candidati

Certo, sembra che la fase eroica delle rivoluzioni arabe sia finita.  Sembra. Ma è solo un’illusione ottica. E’ che è finita l’epica di Piazza Tahrir, ma non le rivoluzioni. Ora, in questi giorni, è in corso la fase del “salviamo il possibile”, mentre là dove la rivoluzione è riuscita (almeno la sua prima fase) ci si posiziona per la battaglia sulla rappresentatività.

Andiamo, però, con ordine. La Siria, anzitutto. Perché la Siria è nel pieno della tempesta. Le immagini dei campi profughi in Turchia colpiscono occhi e cuore, e pongono poi un problema serio nella ricomposizione del Levante. Il turco Recep Tayyep Erdogan, che ha vinto e non stravinto alle elezioni, si è già espresso a favore dell’onda del Secondo Risveglio arabo, comprendendo che non si può non assecondare il movimento in corso nella regione. Col mare non ci si scontra, semmai  si prova a navigare.  Come mi disse un giorno un raffinatissimo scrittore libanese, “dormo sull’onda della tempesta”. Bashar el Assad ha deciso di parlare al popolo siriano, per la terza volta. E dovrebbe parlare di riforme costituzionali, di fatti, cercando di salvare il salvabile in una situazione in cui, però, ci sono già stati troppi morti, uccisi dalle sue forze di sicurezza. Difficile, insomma, che riesca a salvare se stesso, e forse anche il regime.

La rivoluzione siriana non è chiara com’è stata quella egiziana. La rivoluzione iniziata il 25 gennaio in Egitto era tutta concentrata nel paese, senza nessuna pressione da parte degli egiziani all’estero, dell’esilio. In Siria, invece, il peso degli esuli ricorda quello libico, nel bene e nel male. Col rischio – anche – di una controinformazione che in parte ingigantisce le notizie. Un peso che rischia di oscurare le dinamiche interne al paese, dove il rischio di guerra civile è sempre più alto, a sentire i  veri esperti di Siria (e non gli esperti a tavolino, dentro le cancellerie o nei think tank che provano a spostare l’asse della politica occidentale).

C’è chi prova a salvare se stesso anche nel Maghreb, come il re del Marocco Mohammed VI. La sua riforma costituzionale è stata incensata in Occidente, Italia compresa, come una scelta di democrazia. Mi permetto di dissentire, e non solo perché dissente il Movimento 20 Febbraio, quello che prova a manifestare dal 20 febbraio – appunto – represso dalla polizia. Difficile che a me – italiana – possa piacere una riforma costituzionale verticistica, e dunque senza la legittimità democratica che deriva – per esempio – da una commissione costituzionale che non è stata designata dallo stesso re. E’ il re che decide la riforma, è il re che decide chi deve scriverla… Lo accetteremmo, in Italia? Se la risposta è no (la Costituente l’abbiamo eletta, appena usciti da un ventennio fascista, una guerra mondiale e un’occupazione), allora vuol dire che il nostro sguardo verso le rivoluzioni arabe non è viziato del solito orientalismo. Un orientalismo che fa dire: non sono ancora preparati alla democrazia, non hanno una tradizione democratica, devono crescere. Non è vero: l’intellighentsjia araba discetta di democrazia e libertà da decenni, la storia egiziana parla di parlamento e democrazia da oltre un secolo (liberalismo compreso),  e quello che ha bloccato i processi democratici è soprattutto questo colonialismo culturale (ed economico) che ha contrassegnato la strategia occidentale nella regione. La teoria del buon selvaggio non mi convincerà mai, né quando viene applicata agli arabi, né quando viene applicata a noi e al resto del mondo…

Non mi convince per niente, dunque, la democraticità di una riforma costituzionale calata dall’alto. E ovviamente non convince i ragazzi marocchini.

Da ultimo, l’Egitto. Tanto per confermare quella splendida analisi scritta da Oliver Roy sul post-islamismo, i Fratelli Musulmani egiziani hanno confermato di essersi spaccati. Lo si sapeva, ma la recentissima espulsione del più conosciuto leader riformista, Abdel Moneim Abul Futouh (c’è un suo ritratto nel mio Arabi Invisibili), dalla Fratellanza Musulmana rende la spaccatura del tutto evidente. Abul Futouh è uno dei candidati alle presidenziali, e l’Ikhwan non ha gradito la decisione del leader  riformista: dunque, il consiglio della Shura lo ha espulso, mentre lui si trovava in Gran Bretagna, per un giro di incontri con una delle diaspore egiziane più importanti e vivaci.

Abdel Moneim Abul Futouh è tornato al Cairo, accolto all’aeroporto, imitando l’arrivo un anno e mezzo fa di Mohammed el Baradei, che segnò l’inizio della nuova stagione politica egiziana. Nota di colore, che non è tanto una nota di colore: il dottor Abul Futouh si è tagliato la barba. E ha detto che è il candidato di tutti gli egiziani, musulmani e cristiani.

Il post-islamismo è iniziato. Ce ne accorgeremo?

Fonte: Blog di Paola Caridi

20 giugno 2011

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