Deportati palestinesi: lasciateci tornare a Betlemme
Michele Giorgio, Il Manifesto
Digiunano Khaled Abu Nijme, Ibrahim Abayat e Mohammed Saleh. I tre palestinesi, deportati dalla loro terra nel maggio 2002, dopo essere rimasti asserragliati per 39 giorni nella Basilica della Natività di Betlemme sotto assedio israeliano, da alcuni giorni fanno lo sciopero della fame.
Digiunano Khaled Abu Nijme, Ibrahim Abayat e Mohammed Saleh. Ma non per l’inizio del mese islamico di Ramadan. I tre palestinesi, deportati dalla loro terra nel maggio 2002, dopo essere rimasti asserragliati per 39 giorni nella Basilica della Natività di Betlemme sotto assedio israeliano, da alcuni giorni fanno lo sciopero della fame per chiedere il rispetto degli impegni presi nei loro confronti dall’Unione europea e dall’Italia che lo scorso aprile ha tagliato i fondi necessari per il loro mantenimento. «Sia ben chiaro, noi ci sentiamo degli ospiti. Vogliamo tornare nella nostra terra, a Betlemme, così come prevede l’accordo raggiunto sette anni fa da Israele, Stati Uniti ed Europa» spiega Mohammed Saleh cercando, davanti a un ventilatore, un po’ di refrigerio nei locali angusti della Delegazione palestinese in piazza San Giovanni a Roma. «Ho moglie e due bambini, Khaled ha cinque figli che vanno a scuola e hanno le esigenze di tutti i ragazzi della loro età. Senza quel contributo economico non possiamo andare avanti» aggiunge Saleh. «Non ci piace essere un peso sulle spalle del contribuente italiano – afferma il deportato palestiense – ma il vostro paese si è assunto un impegno internazionale e deve portarlo avanti, altrimenti ci faccia rientrare in Palestina, facendo pressioni su Israele». Il governo Berlusconi, precisa un funzionario della Delegazione palestinese, a fine giugno aveva assicurato la ripresa in tempi rapidi dei finanziamenti ma da allora non si è mosso nulla. «Il nostro ufficio – aggiunge – fa quello che può per aiutare i tre deportati e le loro famiglie ma non abbiamo risorse sufficienti. Apprezziamo la generosità italiana ma gli accordi internazionali vanno onorati».
La vicenda dei tre palestinesi in sciopero della fame è solo l’ultimo sviluppo, a distanza di sette anni, di una delle pagine più insanguinate del conflitto mediorientale. Ai primi di aprile 2002, mentre i carri armati israeliani rioccupavano le città controllate dall’Anp, decine di militanti ecivili palestinesi si rifugiarono nella Basilica della Natività di Betlemme, sotto la protezione del frate francescano Ibrahim Faltas. Credevano di essere in salvo ma Israele reagì circondando il luogo santo e proclamando l’intenzione di arrestare e processare tutti quelli all’interno della chiesa. Furono giorni terribili per gli assediati, con pochissimo cibo, alcuni dei quali vennero uccisi dal fuoco dei soldati in sfortunati tentativi di fuga.
L’assedio ebbe termine con un accordo mediato dagli americani che prevedeva l’espulsione di tutti gli assediati nella Striscia di Gaza, ad eccezione di 13, considerati da Israele «i più pericolosi». Belgio, Spagna, Italia, Portogallo. Irlanda e Grecia si offrirono di ospitarli per un periodo non superiore ai tre anni, come spiegò Miguel Moratinos, a quel tempo inviato speciale dell’Ue in Medio Oriente. In Italia arrivarono Abu Nijme, Abayat e Saleh. Il primo si stabilì a Roma, gli altri due in Toscana. Ognuno di loro ha ricevuto sino allo scorso marzo un sussidio di 1.300 euro, un permesso di soggiorno (ma non di lavoro) e la possibilità di poter vivere in Italia con le loro famiglie, ma sorvegliati da polizia e carabinieri. «Ad un certo punto – ricorda Abu Nijme – ci è stata data una maggiore libertà di movimento mentre i nostri figli hanno cominciato a vivere sempre di più da italiani». In Italia sono nati entrambi i due figli di Mohammed Saleh. «Sono molto ben inseriti, hanno tanti amici. Parlano l’italiano meglio dell’arabo e non avranno difficoltà a scuola», dice Saleh impegnato da tre anni a combattere un cancro.
La svolta è arrivata la scorsa primavera. Facendo riferimento ai tagli alle spese previsti dalla finanziaria, le autorità italiane hanno comunicato che non avrebbero più erogato alcun aiuto economico ai deportati. Una decisione resa più grave dal fatto che i tre palestinesi in Italia possono risiedere ma non lavorare. «Noi – ribadisce Abu Nijme – siamo grati all’Italia e ci rendiamo conto di rappresentare una spesa per i contribuenti. Per questo chiediamo il rispetto dell’accordo del 2002: fateci rientrare in Palestina».
Fonte: ilmanifeto.it
21 agosto 2009