Damasco, cronache dalla paura
Diario di un soggiorno nella capitale della Siria, tra la repressione di Assad, gli attentati e la paura del dopo.
Pubblichiamo la cronaca di un recente soggiorno a Damasco, capitale della Siria. L'autore, che viaggia spesso in Siria, resta anonimo per evidenti ragioni di sicurezza.
Sono tornato ieri a Roma da Damasco
. Seduto al tavolino di un bar nei pressi del Pantheon, a Roma, e rileggo i miei appunti. Meno male che non mi sono portato appresso il computer. Me lo avrebbero sequestrato, come hanno fatto con la macchina fotografica. Per mia fortuna non avevo scattato durante l’intero viaggio nemmeno una foto. Mi avevano avvisato e, anche se la tentazione era forte, ora capisco che fu proprio quello il motivo per cui mi avevano lasciato passare dalla frontiera.
Non sarà facile dimenticare le ultime ore passate sul territorio siriano. Frontiera siro-libanese: nella sala di controllo passaporti tra polvere, caos e grida, mentre il termometro toccava i 50°gradi vivevo un’attesa dall’esito incerto. Sono stato interrogato da tre ufficiali, tutto il mio bagaglio è stato messo sottosopra e poi, dopo ore che sembravano un’eternità, mi hanno fatto partire. Davanti ai miei occhi hanno portato due persone con le stampelle in uno stanzino lontano da occhi indiscreti. I feriti non potevano uscire, perché erano testimoni. Persino un vecchio su una sedia a rotelle doveva essere fermato. Solo ora mi rendevo conto che era vero ciò che mi raccontavano sui feriti. Niente ospedali, niente medicine: i feriti, se non curati nelle proprie case, finiscono segnalati per poi sparire e nessuno li rivede più.
Sono entrato in Siria l’8 giugno. Ho trovato una Damasco irriconoscibile. Atmosfera di attesa, la tensione si può quasi toccare. La sera si sentono scoppi di bombe, spari, urla di proteste che vengono dai quartieri più lontani. L’antico nucleo della città è assediato da agenti dei servizi segreti armati che controllano le macchine e reagiscono ad ogni minimo segnale. Non riesco a dimenticare i loro sguardi assettati di sangue, occhi che tremano. Arresti all’ordine del giorno, chi vuole rivedere i propri cari deve pagare cifre altissime in dollari americani.
Damasco, 8 giugno – Sono le otto di sera. Fuori c’è un totale silenzio. Non si sentono più i passi nel vicolo. La gente è ormai chiusa nelle case. Silenzio. Esplosioni dalla piazza vicina. Spari. Qualcuno grida. Silenzio. Passi affrettati. Durante il giorno la vita è in apparenza tranquilla. La gente fa acquisti. Per fortuna il cibo non manca. Mancano le bombole del gas per cucinare. A volte si trovano sul mercato nero a prezzi elevatissimi. Si ricorre ai fornelletti elettrici. Non importa. Quest’inverno non c’era cherosene. Non si potevano riscaldare le case dell’antico quartiere. La gente ha sofferto il freddo ma si è abituata.
Le farmacie hanno obbligo di dare segnalazioni per ogni farmaco che possa servire per curare ferite o infezioni di qualsiasi genere. E comunque non possono vendere medicine. Bisogna rivolgersi agli ospedali. E lì ti aspettano squadre armate. “Sei un ribelle? Parente di un ferito?” Quasi ogni casa nella vecchia città ospita tante famiglie numerose degli sfollati o di coloro che per salvarsi erano fuggiti dall’inferno. In ogni stanza vive una famiglia di sette, otto persone. Non importa. Pochi sorrisi. Qualcuno mi guarda incuriosito: straniero? Che ci fai qui? Non hai paura? Tanti negozi chiusi per protesta. Arroganza. I bambini non giocano più nelle aiuole. Le scuole dei quartieri più sicuri strapiene di bambini profughi. I fornai non infornano più le stesse quantità di pane di prima. I “venditori” di fiori, o “mendicanti” piazzati davanti ad ogni casa. Senza armi, ma coi registratori.
Sguardi spenti. Assenza di musica dai locali, dalle automobili. Persino le Tv sempre accese funzionano a basso volume, in modo che il vicino non sappia che canale stai guardando. Giovani dagli sguardi attenti a ogni angolo di strada. Ogni cosa nascosta comincia ad apparire dalla presenza del suo opposto. Di nuovo esplosioni. La gente corre. Silenzio. Ombre che ondeggiano dietro le tende delle finestre. Attesa. Profumo di gelsomini. Domani è un altro giorno.
Damasco, 15 giugno – Oggi ho visitato i miei amici cristiani che abitano nei pressi della vecchia città. Mi raccontano che in molti hanno lasciato il Paese. Ma ora i visti non li rilascia più nessuno. Chi non può fuggire, spera ancora che il regime lo protegga. Hanno paura dei fondamentalisti. In molti credono ancora che la guerra al regime è causata dai terroristi islamici. Di sera non possono uscire dalle case. Non possono recarsi nelle chiese neanche di domenica. Si mettono tripli lucchetti sulle porte, notte e giorno. I bambini non riescono ad abituarsi al fatto di non poter giocare negli oratori, come una volta prima della guerra.
Qualcuno si pone delle domande sulla vera natura dei terroristi, sul perché si accaniscono maggiormente sui sunniti. Eppure molti cristiani sono morti nella zona di Homs, molti sono in prigione e non si hanno più notizie. Perché li tengono imprigionati se la comunità cristiana li appoggia? I cristiani ortodossi sperano nell’aiuto dei russi, che tra l’altro ho visto circolare per la città, mentre altri stranieri hanno abbandonato lasciato il Paese da tempo. Hanno paura degli iraniani che si aggirano per le strade.
Le donne vanno in panico udendo che i criminali palestinesi diffondono orrore, derubando case, sequestrando persone. E non solo loro. Il Paese è in preda all’anarchia e all’illegalità, dicono. Non c’è più sicurezza, in molti quartieri, l’esercito non entra nemmeno; non riescono più a controllarli. Un’anziana signora con la croce fra le dita urla dalla casa vicina: “Perché ci fai tutto questo Presidente? Non potevi metterti d’accordo all’inizio delle proteste, piuttosto che sparare sulla folla? Quasi un anno e mezzo di incubi. Morti su morti, vendette, a chi serve tutto questo? E pretendi ancora che qualcuno ti creda. Vergogna! Ammazzare la propria gente! Vattene!”. Non ha paura delle sue parole, è troppo anziana e non ha più nulla da perdere, mi dicono.
Un testimone oculare mi racconta piangendo che ha visto sgozzare otto uomini, tra cui un bambino di soli sei anni. La sua testa rotolava davanti agli occhi esterrefatti di sua madre. Gli assassini avevano il volto coperto. Due mesi fa un kamikaze in automobile ha sfondato il cancello di uno degli edifici dei servizi segreti. Un centinaio di metri attorno si era creato il vuoto. Case distrutte, negozi demoliti, era una zona residenziale cristiana.
Sono andato a visitare la strada, ora ancora chiusa al traffico. Su circa metà via mancano le facciate delle case. Qualcuno stava ricostruendo la sua proprietà. Domani è un altro giorno. “Non si può perdere la fede, tutto tranne la fede!" sussurrano due vecchi che mi passano accanto.
Fonte: http://www.famigliacristiana.it/
15 Luglio 2012