Da Betlemme a Gerusalemme, una giornata per cambiare la storia
Annachiara Valle - famigliacristiana.it
Il muro, i ragazzi dei campi profughi, l’invito a Peres e Abu Mazen, l’incontro con il patriarca Bartolomeo. Poche ore e pochi chilometri ma un impulso enorme verso la pace e l’unità.
Una giornata che ne vale tre. O forse molte di più. Gli incontri con i palestinesi e gli israeliani e poi quello, al Santo Sepolcro, con gli ortodossi, dicono di un Papa che riesce a calarsi nelle situazioni, a coglierne i limiti e le potenzialità e a scrostare con pochi gesti e poche parole anni di incomprensioni. Ha il dono di parlar chiaro, papa Francesco. E di sfuggire al protocollo per segnare e segnalare le ingiustizie da rimuovere.
Lo ha fatto a Betlemme sostando in preghiera davanti al muro costruito dagli israeliani e che, come dicono i palestinesi, divide la nascita dalla risurrezione impedendo ai cristiani di quella città di arrivare fino al Santo Sepolcro, a Gerusalemme.
Lo ha fatto al campo profughi di Dheisheh esortando i ragazzi a non cedere alla violenza “perché la violenza si combatte con la pace e con la dignità di costruire la patria”. Lo ha fatto, soprattutto, invitando Peres e Abu Mazen in Vaticano per un colloquio di preghiera per la pace.
A entrambi i presidenti il Papa ha ricordato il diritto ai due Stati secondo i confini internazionalmente riconosciuti. E a entrambi ha sollecitato quella convivenza e quel rispetto per i popoli, le religioni e le culture che non può non esserci in un Paese riconosciuto Santo dalle musulmani, cristiani ed ebrei.
E poi il cuore del pellegrinaggio, al Santo Sepolcro, con il patriarca Bartolomeo in ricordo dello storico viaggio di Paolo VI 50 anni fa. Il Papa parla delle difficoltà di tutti i cristiani e insiste su «quell’ecumenismo della sofferenza, del sangue, che possiede una particolare efficacia non solo per i contesti in cui esso ha luogo, ma, in virtù della comunione dei santi, anche per tutta la Chiesa». E ribadisce la necessità del dialogo anche per «trovare una forma di esercizio del ministero proprio del vescovo di Roma che, in conformità con la sua missione, si apra a una situazione nuova e possa essere , nel contesto attuale, un servizio di amore e di comunione riconosciuto da tutti».
Ma più che le parole e la dichiarazione congiunta che papa Francesco e il patriarca Bartolomeo hanno firmato prima di recarsi al Santo Sepolcro, fanno breccia le immagini dei due leader religiosi che scendono i gradini verso la basilica. «È scivoloso», dice papa Francesco a Bartolomeo che subito gli dà la mano per sorreggerlo. Insieme si inginocchiano sulla pietra dell’unzione e insieme ascoltano l’introduzione del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Theophilos II.
Il Papa e il Patriarca di Costantinopoli siedono insieme con accanto i tre superiori delle Comunità dello “Statu quo” (oltre a Theophilos, il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa e il patriarca armeno apostolico, Nourhan) e con il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal. E le sei sedie rosse uguali sono già espressione di fraternità.
E anche se occorre ancora lavorare e dialogare per arrivare a quella «pienezza di comunione che possa esprimersi anche nella condivisione della stessa mensa eucaristica», la strada è tracciata. I campi su cui lavorare insieme, specie nei luoghi dove i cristiani soffrono di più è già tracciata: «Questa tomba sacra», ha detto Bartolomeo «ci invita a respingere un altro timore che forse è il più diffuso nella nostra era moderna, vale a dire la paura dell’altro, del diverso, la paura di chi aderisce ad un’altra fede, un’altra religione o un’altra confessione».
«Il fanatismo religioso», ha detto ancora il patriarca, «minaccia ormai la pace in molte regioni del globo, dove lo stesso dono della vita viene sacrificato sull’altare dell’odio religioso. Davanti a tale situazione, il messaggio che promana dalla tomba che dà la vita è urgente e chiaro: amare l’altro, l’altro con le sue differenze, chi segue altre fedi e confessioni». E papa Francesco, che parla dopo Bartolomeo, ha ancora la forza di aggiungere a braccio, dopo i quattro discorsi della giornata e l’incontro con i bambini del campo profughi, che «quelli che per odio della fede uccidono e perseguitano i cristiani non gli domandano se sono ortodossi o cattolici, sono cristiani. Il sangue cristiano è lo stesso». Per questo è fondamentale il reciproco riconoscimento, prestarsi aiuto a vicenda.
L’immagine dei capi religiosi che pregano insieme il Padre nostro, per la prima volta, nel luogo del Santo Sepolcro, è una spinta forte per questo riconoscimento. Un segno di unità che apre la strada, come ha esortato Papa Francesco, anche al dialogo con l’ebraismo e con l’islam.
Ed è dall’incontro con queste due religioni che comincerà, domani, l’ultima giornata del viaggio di papa Francesco in Terra Santa.
Fonte: www.famigliacristiana.it
25 maggio 2014