Cosa sta succedendo in Italia? Sta per caso diventando razzista e xenofoba?
Jean-Léonard Touadi
Ogni settimana che passa porta la sua notizia sui mutamenti profondi che subisce la nostra società alle prese con gli stranieri che vivono e lavorano nel nostro paese. La questione immigrati è al centro del dibattito pubblico.
Spesso sull’onda dell’emotività che porta a ragionare con le budella in mano piuttosto che con il cervello, troppo volte con il linguaggio sapientemente strumentale della “querelle” politica che piega alle proprie convenienze elettoralistiche di breve respiro un fenomeno che meriterebbe di essere affrontate con pragmatismo, lungimiranza e attenzione scrupolosa ai diritti delle persone. E mentre infuria il dibattito interno, la stampa e l’opinione pubblica europea e mondiale s’interroga e ci interroga: cosa sta succedendo in Italia? Sta per caso l’Italia diventando razzista e xenofoba? Federika Randall, nel numero di “Internazionale” (n° 780), scrive significativamente che “un tempo gli italiani si vantavano di essere brava gente. Ma non lo sono più. L’enfasi rabbiosa sulla sicurezza che ha caratterizzato l’ultima campagna elettorale della destra (dove “sicurezza” significa proteggere gli italiani da immigrati e zingari) contiene un messaggio che le forze di polizia hanno messo in pratica quasi subito. Come ha detto il vicesindaco di Treviso, Giancarlo Gentilini, esponente del partito razzista e xenofobo Lega Nord, gli immigrati musulmani devono andare a “pisciare nelle moschee”. Quando il ministro delle riforme Umberto Bossi ha affermato che gli italiani non vogliono i “bingo-bongo” nel loro paese, il razzismo da osteria del terzo governo Berlusconi i è diventato ufficiale”. Ma il giudizio di Randall non è isolato. Sono stato in questi mesi bersagliato da intervista di importanti giornali, radio e televisioni del mondo che pongono lo stesso quesito sulla metamorfosi italiana da paese di “brava gente” a paese pronto a cannoneggiare le barchette degli immigrati prima del loro attracco a Lampedusa.
Queste domande ci imbarazzano e ci irritano perché toccano un punto focale della nostra auto-percezione collettiva, a lunga alimentata e artatamente nutrita, di un’Italia senza complessi coloniali e senza il tarlo del razzismo. Abbiamo fatto di noi stessi una narrazione di comodo, a-temporale, a-storica di una nazione speciale, buona intrinsecamente, senza il peccato originale antropologica dell’asserita nostra superiorità nei confronti degli altri popoli e delle altre civiltà. A parte il fatto che tale convinzione non regge il confronto con la più aggiornata storiografia della nostra colonizzazione che fu tutt’altra che esente da gravi colpe tipiche dei disegni coloniali di altre nazioni europei. Angelo del Bocca, uno dei maggiori storici dell’Italia coloniale sta mettendo a nudo le verità nascoste e mai approfondite della nostra avventura coloniale in parte e in tutto simile a tutte le storie di sopraffazione dei popoli, di avvilimento culturale delle loro identità, di spoliazione delle loro ricchezze. Siamo quindi pienamente europei anche nel nostro passato coloniale, a dispetto del carattere discontinuo e poco incisivo della nostra ricerca del “posto al sole”. Italiani “brava gente” è stato, forse troppo a lungo, solo una narrazione mistificata di una realtà e di un essere coloniali non dissimili dalla storia di altre potenze coloniali europei. E ciò mentre altri paesi europei si pongono domande sulla loro memoria coloniale e sull’impatto dei saperi e delle pratiche elaborate durante il giogo coloniale sulla percezione e il trattamento riservato agli immigrati di oggi, figli e nipoti di quelli schiavizzati e colonizzati ieri. L’immigrazione ricongiunge passato e presente, storia e contemporaneità.
Siamo pienamente europei nel nostro passato e lo siamo altrettanto pienamente oggi in quanto l’irruzione dell’altro, dello straniero, di colui che consideriamo radicalmente altro nella nostra società sta mettendo a nudo le nostre fragilità, le paure sopite, le frustrazioni senza sfoghi, le identità perse e raffazzonate. L’immigrazione ci restituisce come in un gigantesco specchio storico il nostro passato. I “barbari” di ieri, gli indigeni disprezzati, gli incivili di ieri sono oggi, grazie ai flussi migratori, tra noi. L’esotico che ci ha affascinati nei romanzi e nei film dei secoli scorsi oggi si è fatto vicino. E’ dentro di noi, è diventato noi stessi. L’irruzione dell’altro esalta la precarietà del nostro “Noi” collettivo, una finzione che ci ha rassicurato e che scopriamo essere oggi un “Noi” in bilico incapace di dare certezze alla nostra navigazione nel mare agitato della globalizzazione. L’irruzione dell’altro diventa lo specchio di noi stessi, di quello che abbiamo sempre rifiutato di affrontare. Ci mette di fronte alla nostra paura. Lo straniero, l’immigrato, il “clandestino” esaspera e ingigantisce la clandestinità del nostro senso collettivo, delle nostre radici evanescenti, delle nostre coscienze offuscate e macdonalizzate ossia levigate verso il conformismo sociale e l’onanismo consumistico. Abbiamo paura e l’altro è il detonatore della bomba che covava nelle ceneri delle disillusioni del nostro progresso senza felicità. Abbiamo paura e le nostre paure assumono le sembianze dell’altro, del diverso per colore della pelle, per orientamento sessuale, per condizione sociale. Sentiamo il bisogno di segnare i confini del nostro territorio, di distinguere il “Noi” dagli altri. La pedagogia della separatezza sposa le vie della separatezza, della differenziazione nei diritti, nella negazione dell’accesso ai servizi essenziali (scuole e sanità in primis). La nostra “macchina della paura” ha bisogno di “qualcuno da odiare” e lo trova prevalentemente nel migrante verso il quale indirizziamo un’ostilità simbolica e materiale sempre più decisa. Queste osservazioni sono di un sociologo dei processi culturali di Genova, Alessandro Dal Lago che, nel suo saggio di rara profondità, significativamente intitolato “Non – persone” (L’esclusione dei migranti in una società globale) del 2004 , ci metteva in guardia contro l’esistenza nel nostro paese di residenti senza diritti, ossia le non-persone. Senza accorgercene siamo costruendo una società separata dove da un lato ci sono i cittadini e gli altri, i senza diritti e senza difesa (stranieri ma anche altri tipi di emarginazione o di diversità). Siamo scivolando verso un apartheid di fatto (sviluppo separato significava in Sudafrica).Cosa altro pensare quando di parla di separare gli alunni stranieri degli altri; quando si nega il ricongiungimento familiare agli immigrati; quando si chiede ai medici di negare le cure essenziali ai clandestini con compiti di delazione affidati ai medici ed infermieri; quando il ministro degli interni dichiara solennemente davanti al paese che – in un paese alle prese con la criminalità organizzata in tutto il meridione – la priorità della sicurezza siano i clandestini; quando si rispediscono a casa gli sbarcati di Lampedusa senza nemmeno la possibilità prevista da tutte le convenzioni internazionali di chiedere asilo; quando gli immigrati regolari sono ostaggi della burocrazia dei rinnovi del permesso di soggiorno impedendo qualsiasi possibilità di movimento, quando gli indigenti stranieri sono esclusi a priori dall’accesso ai servizio sociali; quando gli anziani stranieri sono esclusi dai trattamenti pensionistici riservati ai loro coetanei; quando si teorizzano percorsi civili e penali differenziati per gli stranieri con la pena aggiuntiva non prevista dai codici dell’espulsione; quando s’introducono tasse speciali solo per immigrati; quando s’impedisce l’esercizio di un diritto e di una libertà fondamentali come la libertà di culto. E l’elenco potrebbe proseguire. Messi insieme tutte queste misure determinano una situazione pesante per gli immigrati che – in2 un contesto di crisi economica – rischiano due volte. Oltre la perdita del posto del lavoro anche la possibilità di permanenza in Italia indipendentemente dal fatto di avere una famiglia, dei figli, un radicamento sociale. La “macchina della paura” è ormai in moto e approfitta di qualunque evento, fatto di cronaca, provvedimento per trovare “qualcuno da odiare”.
Scrive Dal lago:”ogni discriminazione o persecuzione degli stranieri, interni o esterni viene tradizionalmente attuata mediante il ricorso a meccanismi di vittimizzazione dell’aggressore e colpevolizzazione delle vittime. Gli aggressori sono solitamente “vitti e” di torti da raddrizzare o cittadini deboli o abbandonati dalle istituzioni che si coalizzano per fare giustizia, mentre gli aggrediti o i discriminati sono corpi estranei, invasori, corruttori o comunque nemici della società indifesa. Spesso, il ruolo di difensori o vendicatori della società offesa viene assunto dagli imprenditori morali, avanguardie che si accollano il compito di scuotere un’opinione pubblica passiva e inconsapevole. Talvolta, singole istituzioni o centri di poteri influenti mobilitano, mediante denunce appropriate, la società contro individui o gruppi. La colpevolizzazione delle vittime assume naturalmente forme diverse e varia di intensità a seconda dell’organizzazione politica della società, dell’esistenza e della forza di un’opinione pubblica indipendente dal potere politico”.
Ecco perché tutto quello che di forze democratiche rimaste nel nostro paese devono combattere con forza e nuova immaginazione progettuale e comunicativa il paradigma della sicurezza. Perché combattere questa paradigma. Prima di tutto perché introduce nel nostro ordinamento il principio di separatezza tra cittadini. Separatezza contraria all’articolo 3 della nostra costituzione che chiede la rimozione di tutti gli ostacoli che si oppongono all’uguaglianza e alla piena dignità dei cittadini e di tutti i cittadini visto che tutte le sentenze della Corte di cassazione allargano la parità anche agli stranieri che soggiornano nel nostro paese. In secondo luogo, il paradigma della sicurezza confonde problemi di ordine pubblico con problemi sociali. Una confusione grave dal punto di vista morale e sbagliata dal punto di vista politico. Ai problemi di ordine pubblico vanno riservate risposte secondo i codici civili e penali esistenti, magari con certezza del diritto e accelerazione dei processi. In terzo luogo il paradigma della sicurezza crea nei territori le condizioni per una guerra tra poveri attraverso la criminalizzazione indifferenziata di tutti gli immigrati facendone, agli occhi della pubblica opinione, dei facili capri espiatori. Mentre i compiti della politica sono quelli di allargare l’area dei diritti per includere. Perché l’inclusione paga anche in termini di sicurezza se è vero che una città sicura è una città giusta. Infine, i paradigma della sicurezza è diventato un gigantesco business elettorale che lavora prima di tutto per colpire l’immaginario simbolico dei propri elettorali senza curarsi di fornire risposte razionali ai problemi sollevati. La Lega Nord è riuscita nell’intento di farci dibattere sull’immigrazione con le budella in mano mentre il fenomeno meriterebbe una riflessione con il cervello in mano. Perché l’immigrazione non può e non deve essere un tema elettorale bensì una materia politica nel senso più denso della parola, una questione di governo del fenomeno e dei percorsi d’integrazione.
Tutti noi possiamo fare molto in tutti gli ambiti della nostra vita e del nostro lavoro. Possiamo fare molto per mutare prima di tutto la cultura su ed intorno all’immigrazione e agli immigrati. Nuovi approcci d‘analisi, ecologia del linguaggio sui fatti che li riguardano, percorsi d’integrazione non paternalistici e miserabilità, conferimento di una soggettività e di un protagonismo alle loro associazioni, attività di “lobby and advocacy” presso i partiti e il parlamento all’occasione di importanti provvedimenti che toccano la vita degli immigrati, una gigantesca par condicio da attuare nella Rai e nella stampa in generale per un’informazione appropriata facendo anche tesoro della “prise de parole” collettiva degli immigrati attraverso i loro mezzi di comunicazione in lingua italiana in forte crescita.
Infine, per riportare il tutto ad una dimensione umana, perché non adottare ciascuno di noi un’associazione d‘immigrati, una radio, un negozio cosiddetto etnico, un locale o un bar sotto casa, una chiesa o una moschea per cominciare a rendere persone degne di relazioni gli stranieri presenti nel nostro territorio; per imparare ad ascoltare cosa hanno da dire e da dirci; per fare indietreggiare l’indifferenza e l’ignoranza che genera paura e pregiudizi. Perché le culture, le religioni, le categorie sociologiche non s’incontrano mai. Ad incontrarsi sono sempre le persone in carne ed ossa. L’irruzione dell’altro diventa allora una formidabile occasione di ricchezza e d’impollinazione reciproca.
Fonte: Articolo21
3 febbraio 2009