Corno d’Africa, la fame che uccide
Luciano Scalettari
Si parla ormai di quasi 11 milioni e mezzo di persone a rischio sopravvivenza, in Somalia, Kenya, Etiopia. Ma anche Gibuti ed Eritrea. Mentre i Paesi donatori latitano.
Un bambino gravemente malnutrito con la madre al Benadir Hospital, a Mogadiscio, in Somalia (Foto: Ansa)
Sale il numero delle persone colpite dalla carestia nell’Africa orientale. Undici milioni e 300.000 persone hanno bisogno di assistenza alimentare. Somalia, Etiopia, Kenya, Gibuti, Eritrea i Paesi già fortemente colpiti, Sud Sudan, Uganda e Tanzania quelli a rischio.
Se la Somalia è il paese più colpito, a causa della situazione di anarchia e di conflitto in cui il versa da anni, anche negli altri Paesi la carestia si sta espandendo. I più vulnerabili sono l’Etiopia con 4,5 milioni di persone a rischio; il Kenya, con oltre 3,2; la Somalia con quasi 3,3 milioni. I numeri della crisi crescono, quasi di giorno in giorno. E le agenzie umanitarie dell’Onu, come pure le Ong si stanno mobilitando con il massimo spiegamento di forze.
Per ottenere le prime reazioni della comunità internazionale e dei Paesi donatori c’è voluto però l’appello del Papa, Benedetto XVI: «Con profonda preoccupazione», aveva detto all'Angelus di domenica scorsa, «seguo le notizie provenienti dalla regione del Corno d'Africa e in particolare dalla Somalia, colpita da una gravissima siccità e, in seguito, in alcune zone, anche da forti piogge, che stanno causando una catastrofe umanitaria». «Innumerevoli persone», aveva aggiunto, «stanno fuggendo da quella tremenda carestia in cerca di cibo e di aiuti».
Gli ha fatto subito eco l’Amministratore apostolico di Mogadiscio e vescovo di Gibuti monsignor Giorgio Bertin: «Siamo di fronte a una tragedia», ha dichiarato. «Non ho altre parole per definire quanto sta accadendo in Somalia in queste settimane». Mons. Bertin spiega che «le prime avvisaglie della carestia le abbiamo avute lo scorso anno. Nel periodo di ottobre-novembre non è quasi piovuto. La carenza di acqua ha messo a repentaglio il raccolto primaverile. E anche le grandi piogge che di solito arrivano verso aprile e maggio si sono risolte in due o tre acquazzoni violenti, ma che non sono bastati a tamponare la carenza idrica. In Somalia, un Paese con un’economia di sussistenza, senza alcuna autorità pubblica (da vent’anni non esiste un governo centrale) e devastata da una guerra civile, due stagioni senza pioggia possono velocemente tramutarsi in siccità e carestia».
Per fuggire alla fame i somali fuggono in tre direzioni. Molti – nelle ultime settimane 2.000 al giorno – cercano di raggiungere Mogadiscio, dove arrivano aiuti delle organizzazioni internazionali. Molti altri si dirigono oltre confine, cercando di raggiungere il campo rifugiati di Dolo Ado, nell’Ogaden etiopico, che conta ormai oltre 90 mila profughi, e lo sterminato agglomerato di Daadab, in Kenya, considerato oggi il campo più grande del mondo (le ultime cifre parlano di 440 mila presenze).
La crisi somala è ovviamente aggravata dalla guerra civile, che perdura da 20 anni ma che negli ultimi mesi si è intensificata. Per molto tempo le milizie fondamentaliste islamiche degli “Shabab” (che controllano una significativa parte del Paese) avevano negato l’autorizzazione all’ingresso degli aiuti umanitari. Solo da pochi giorni, di fronte all’emergenza dilagante, è stato annunciato che il divieto sarà tolto.
Le notizie che giungono dal terreno parlano di raccolti perduti e di bestiame più che dimezzato. Inoltre la drammatica carenza di generi alimentari ha fatto lievitare i prezzi, al punto che con la vendita di una capra una famiglia somala non riesce ad acquistare cibo per più di due giorni.
Ai campi strutturati, come quelli di Dolo Ado e Daadab, se ne affiancano altri, anche informali: gli sfollati che arrivano non trovano più posto e si accampano come possono, con tende improvvisate. «In questi agglomerati la percentuale di bimbi denutriti è tre volte superiore a quella registrata nei campi veri e propri», dice Caroline Adu Sada, coordinatore di Medici senza frontiere (Msf) in Kenya, che sta intervenendo i diverse aree della crisi.
Gli aiuti, attualmente, sono largamente insufficienti a far fronte al fiume umano che scappa dalla carestia. Nei campi rifugiati per ora l’Hcr (Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu) riesce a garantire non più di 3 litri d’acqua per persona. Molto meno negli accampamenti informali, dove si scende un litro o anche mezzo (il minimo per le necessità quotidiane è considerato 20 litri al girono per persona).
«Le conseguenze sono drammatiche», spiega Caroline Adu Sada, di Msf: «Stanno aumentando casi di diarrea, varicella, morbillo, malattie della pelle e infezioni respiratorie». Per la popolazione locale, quella preesistente all’arrivo dei profughi, non va molto meglio. «I casi di malnutrizione sono tanto numerosi quanto negli accampamenti informali di profughi. La siccità ha dimezzato gli animali. La gente non ha cibo a sufficienza», spiega la responsabile di Msf. «Tanto che chiedono di poter entrare nei campi».
Caritas Italiana, in stretta collaborazione con Caritas Internationalis e con quelle nazionali (somala, etiope e kenyana), ha lanciato un appello urgente per raccogliere fondi e messo a disposizione da subito un primo contributo di 300.000 euro per aiuti immediati. Ma ha anche «invitato a riflettere sulle cause strutturali di queste sofferenze: la dipendenza dall’esterno per l’approvvigionamento di cibo, l’innalzamento dei prezzi di cibo e acqua, le situazioni di conflitto, i cambiamenti climatici».
Fonte: Famiglia Cristiana
24 luglio 2011