Il coraggio di inginocchiarsi contro Trump
Avvenire
La forza dello sport e la potenza di un linguaggio universale rischia di diventare un fattore molto importante nelle dinamiche interne degli Usa.
Il 7 dicembre 1941 le forze aeree giapponesi attaccarono la flotta americana di stanza presso la base navale di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii. L’operazione avvenne in assenza di una ufficiale dichiarazione di guerra da parte giapponese, il presidente Roosvelt parlò di Day of Infamy (il giorno dell’infamia) e, di fatto, provocò l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Si presume che il presidente avesse un po’ di pensieri per la testa, eppure cinque settimane dopo quell’attacco, il 15 gennaio 1942, si sedette davanti alla macchina da scrivere e picchiettò sui tasti una lettera diretta a Kenesaw Landis, commissioner e organizzatore del campionato della lega nazionale di baseball. «Sento in tutta onestà che la cosa migliore per il Paese sia che il baseball non si fermi», firmato Franklin Delano Roosvelt. Il presidente degli Stati Uniti intuiva che lo sport sarebbe stato in grado di dare il suo contributo, in termini di unità e identità, a un Paese in guerra e piombato in un momento così drammaticamente delicato.
Settantacinque anni dopo soffiano di nuovo venti di guerra e l’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, spiega al mondo con un tweet che è pronto a distruggere la nazione guidata da colui che chiama «Little Rocket Man», il piccolo uomo-missile.
Tuttavia, ultimamente, Trump dedica molte attenzioni anche al mondo dello sport. Già, perché dalle grandi leghe dello sport professionistico a stelle e strisce, football americano, baseball e basket, arrivano segni di una profonda insofferenza nei confronti del presidente. Il kneeling, ovvero la forma di protesta che consiste nell’ascoltare l’inno americano (cosa che negli Usa succede all’inizio di ogni partita) non in piedi, ma in ginocchio sta assumendo dimensioni inaspettate.
Ormai è una sorta di richiesta di impeachment che arriva da atleti che hanno seguito e presa su milioni e milioni di tifosi. Nei giorni scorsi una superstar del basket come Stephen Curry ha fatto arrivare al presidente un esplicito rifiuto a partecipare alla tradizionale visita alla Casa Bianca riservata alla squadra che ha vinto il titolo Nba. Trump si è molto arrabbiato, ha revocato l’invito e non ha fatto altro che garantirsi un’ulteriore presa di posizione da parte di un’altra superstar: Le Bron James. Prima un tweet al vetriolo: «Essere invitati alla Casa Bianca era un grande onore fino a quando è comparso lei» e poi un’intervista, pubblicata sul suo profilo, dove Le Bron James dice esplicitamente: «Trump sta usando lo sport come un palcoscenico per tentare di dividere gli americani».
Ora, per ragionare sull’impatto di questi messaggi in termini di reputazione basta fare due calcoli matematici: Stephen Curry e Le Bron James contano insieme quasi 50 milioni di followers, più o meno il doppio di tutti gli abitanti della Corea del Nord (e decisamente molti di più di Trump stesso). Sono insomma, nei fatti, due “capi di Stato” che stanno soffiando sul vento della protesta che porta, di partita in partita e di sport in sport, sempre più atleti in ginocchio ad ascoltare l’inno, a capo chino.
Vengono in mente i pugni guantati di nero sul podio dei 200 metri ai Giochi Olimpici di Città del Messico nel 1968, oppure i pugni di Mohammed Alì, veloci come le parole e le poesie che urlavano al mondo intero il suo impegno civile.
Lo sport americano, quello stesso sport a cui Roosvelt chiedeva il miracolo di tenere unito il Paese, si mette in ginocchio per mettere in ginocchio un presidente che viene ritenuto sempre più inadeguato e fonte inesauribile di imbarazzo. Lo forza dello sport, la potenza di un linguaggio universale (quando succede che i suoi protagonisti assoluti lo utilizzino non solo sul terreno di gioco) rischia di diventare un fattore molto importante nelle dinamiche interne degli Usa. Lo sa bene, anzi benissimo, anche Donald Trump che ormai twitta compulsivamente minacce di guerra, insulti agli atleti, inviti ai loro manager affinché provvedano a licenziarli. Un braccio di ferro dove Trump rischia moltissimo e dove lo sport, tutto insieme, sta giocando una delle partite più importanti dal dopoguerra.
Mauro Berruto
mercoledì 27 settembre 2017
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