Come si costruisce un’invasione
Dacia Maraini
Il caso degli Usa versus Iraq è esemplare. In questa arte del capovolgimento della verità, in questa pratica della aggressione scambiata per difesa, la perfezione l’hanno raggiunta soprattutto i nazisti. Bravissimi nel montare processi alle intenzioni contro popoli dei cui beni volevano impadronirsi. Tutto questo oggi sta succedendo nel Tibet.
La storia ci insegna che quando un Paese potente vuole fagocitarne uno meno potente, prima di tutto mette in discussione le sue frontiere. Prende a dubitare pubblicamente della legittimità della sua esistenza. Rilegge il passato a modo suo, pretende di avere diritti aviti su quel territorio. Naturalmente si scontrerà con il sentimento nazionale e identitario del piccolo popolo vicino, che comincerà a protestare. Le proteste saranno immediatamente considerate ostilità vere e proprie dal Paese più potente e più grosso che griderà al pericolo di aggressione. Intanto diffonderà il discredito internazionale: metterà in ridicolo le usanze del Paese più povero, disprezzerà la sua religione, criticherà le sue capacità di crescita, dimostrando che si tratta di un popolo pigro, incapace di sviluppo. Ma a questo punto, in aperta contraddizione con le precedenti informazioni circa la incapacità e la sostanziale arretratezza e passività del piccolo Paese, il grande Paese griderà che esso si sta preparando per aggredirlo. Con quali mezzi non viene detto. Ma farà presto a montare una campagna capillare per dimostrare che il popolo degli incapaci trama nell’ombra per infiltrarsi fra i capaci, che la potenzialità distruttiva del piccolo Paese si fa ogni giorno più evidente.
Si griderà a più voci che quel piccolo popolo aspirante all’indipendenza è una spina nel fianco, un veleno che corrode e pervade il popolo dei giusti. Si insinuerà che, nonostante l’amore fraterno, nonostante i sentimenti democratici, o forse proprio in nome di quelli, diventa necessario arrestare le mire espansionistiche del piccolo Paese. Non ci vorrà molto a convincere la popolazione del grande Paese, attraverso i giornali che riportano una sola voce – le voci contrarie essendo state bandite e ogni critica essendo considerata tradimento – sulla necessità di una punizione severa.
Ecco come si arriva, un gradino per volta, alla preparazione psicologica e militare (di cui la gente sa poco) per l’invasione, o per la repressione del piccolo Paese, chiamato “fratello traditore”, che sarà compiuta col consenso della popolazione intera, ingannata e indottrinata a sufficienza. Si tratta di un processo talmente risaputo e riconoscibile che ci sembra impossibile possa ancora funzionare. E invece ogni volta viene ripetuto come se fosse la prima e ancora oggi popoli interi abboccano come pesci all’amo. Il caso degli Usa versus Iraq è esemplare. In questa arte del capovolgimento della verità, in questa pratica della aggressione scambiata per difesa, la perfezione l’hanno raggiunta soprattutto i nazisti. Bravissimi nel montare processi alle intenzioni contro popoli dei cui beni volevano impadronirsi.
Tutto questo oggi sta succedendo nel Tibet. E la verità va detta. Va ricordato il processo di demonizzazione dell’avversario presente in tutti i piani di controllo e assoggettazione di un popolo. Gli organismi internazionali dovrebbero essere più avveduti e più severi. Dovrebbero difendere i Paesi deboli che vengono schiacciati da quelli più ricchi e potenti. Le cose sono visibili agli occhi di tutti. L’ingiustizia non ha bisogno di processi legali per rivelarsi come tale.
Fonte: Corriere della Sera
25 marzo 2008