Come restare in Afghanistan dopo il ritiro degli americani
Corriere della Sera
Pubblichiamo il botta e risposta tra Emanuele Giordana, portavoce di Afgana e Sergio Romano giornalista del Corriere della Sera (oggi a pagine 53).
Afgana, rete informale della società civile italiana di associazioni, ong, sindacati e cittadini che amano l’Afghanistan, teme che la “transizione”, in altre parole il nostro impegno militare, possa trasformarsi nell’abbandono di un Paese verso cui crediamo che l’Italia abbia invece una grande responsabilità. Bene o male che sia andata questa avventura, d’accordo o meno se andava percorsa, giusta o sbagliata che fosse, dovremmo pensare al futuro incerto che ha di fronte. Con gli amici della Tavola della Pace e della Rete italiana per il disarmo, Afgana chiederà al nostro Parlamento che, a partire dall’inizio del ritiro del contingente italiano, per ogni euro risparmiato per le spese della missione militare, 30 centesimi vengano stanziati per interventi di cooperazione civile. La sua opinione ci farebbe piacere.
Emanuele Giordana, portavoce di Afgana
Risponde
Sergio Romano
Caro Giordana,
anch’io credo che l’Afghanistan, dopo il ritiro della maggior parte del contingente americano nel 2014, non debba venire abbandonato. La guerra fu mal condotta, nella sua fase iniziale, da un’amministrazione americana che pensava soprattutto all’Iraq. Ma se i Paesi impegnati oggi nel conflitto se ne andassero alla scadenza fissata da Baraci Obama, butteremmo via tutto l’impegno profuso durante l’ultimo decennio in denaro, progetti e vite umane. La guerra non è finita e potrebbe continuare ancora per parecchi anni, ma il lavoro fatto ha suscitato attese nella popolazione civile e gettato le basi per lo sviluppo di una nuova classe dirigente. Non è possibile immaginare, tuttavia, che la presenza straniera in Afghanistan dopo il 2014 possa essere la somma di alcune iniziative unilaterali promosse da Stati sensibili e volenterosi. I problemi del Paese sono troppo numerosi e troppo complicati: la minaccia talebana, i conflitti tribali, l'ambiguità del Pakistan, la coltivazione dell'oppio, la corruzione della classe al potere. Non è tutto. L'Afghanistan è un mosaico di gruppi etnici ed è circondato da Paesi dominati da una pericolosa combinazione di timori e ambizioni. Ciascuno dei suoi vicini teme che il collasso dell'Afghanistan offra a un altro Paese l'occasione per allearsi con un gruppo etnico e conquistare una posizione dominante. E crede che il miglior modo per sventare questa possibilità sia quello di precedere il concorrente con la stessa strategia. Se non vogliamo che il Paese precipiti nel caos e divenga campo di battaglia per una serie di conflitti incrociati, occorre coinvolgere tutti gli Stati della regione, dal Pakistan alla Russia (che conserva una presenza militare in alcune repubbliche dell'Asia centrale), dall'Iran alla Cina. Il senatore John Kerry, candidato alla Casa Bianca contro George W. Bush e presidente della Commissione affari esteri del Senato americano, sembra esserne consapevole. Occorre un piano che tenga conto della molteplicità degli attori e delle loro esigenze. E occorre beninteso il denaro. Di questi temi si parlerà a Bonn in occasione della grande conferenza sull'Afghanistan iniziata ieri, la prima dopo quella che si tenne dieci anni fa nei pressi dell'ex capitale tedesca. Purtroppo il Pakistan, per ora, ha deciso di stare a guardare. Vuole protestare in questo modo contro una recente incursione americana nel suo territorio che ha provocato la morte di 26 soldati. Ma la vittima della protesta non sarà l'America; sarà l'Afghanistan.
Fonte: Corriere della Sera, 6 dicembre 2012, pag. 53