Cisgiordania: i coloni riprendono a costruire tra le proteste


Michela Perathoner


Nonostante l’impegno e ottimismo di attivisti e organizzazioni per la tutela dei diritti umani, gli interventi del primo ministro israeliano degli ultimi mesi non lasciavano di certo auspicare un ulteriore blocco oltre il mese di settembre.


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Cisgiordania: i coloni riprendono a costruire tra le proteste

Settembre non è solamente il mese della dibattuta ripresa dei negoziati di pace, del nuovo round di discussioni sul futuro di Gerusalemme capitale, degli attentati in Cisgiordania e della riaccensione del conflitto e delle tensioni tra Israele e Palestina e all’interno delle forze politiche degli stessi Territori.
Settembre è anche il mese in cui il Governo di Benjamin Netanyahu avrebbe dovuto decidere sull’eventuale estensione del congelamento di nuove costruzioni in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme Est), il cosiddetto “settlement freeze”, durato dieci mesi e in scadenza il 26 settembre prossimo.
“Israele deve scegliere: la soluzione dei due Stati” è il titolo della campagna di sensibilizzazione lanciata da una delle maggiori associazioni di attivisti a livello nazionale, Peace now nel mese di agosto. “La costruzione delle colonie è un fatto negativo per Israele, mina i negoziati di pace, crea punti di frizione tra israeliani e palestinesi, prosciuga le risorse economiche di Israele”, dichiarano i portavoce, preoccupati delle conseguenze della ripresa delle costruzioni in West Bank.
Ma, nonostante l’impegno e ottimismo di attivisti e organizzazioni per la tutela dei diritti umani, gli interventi del primo ministro israeliano degli ultimi mesi non lasciavano di certo auspicare un ulteriore blocco oltre il mese di settembre.
E dopo una prima conferma, arrivata ancora prima dell’inizio degli incontri che si stanno svolgendo a Washington in questi giorni, ad accelerare la ripresa delle costruzioni ci hanno pensato i coloni. Una risposta all’uccisione di quattro israeliani nei pressi di Hebron il 31 agosto scorso, ma anche una manifestazione di forza e resistenza. Perché loro- i coloni-, come dichiarato da Naftali Bennett, direttore del Yesha Council, organizzazione che raccoglie le varie colonie presenti in Cisgiordania, al quotidiano Haaretz, da lì non se ne andranno.
Come riportato dal quotidiano israeliano, infatti, i coloni avrebbero prima minacciato di far cadere il Governo se avesse deciso di continuare l’interruzione dei lavori negli insediamenti, per poi terminare unilateralmente il congelamento attualmente in corso mercoledì primo settembre. E via alla ricostruzione.
Una provocazione? Di un certo peso, a livello di politica interna israeliana. Non è una novità: il popolo dei coloni, oltre 300.000 persone distribuite in 121 insediamenti in Cisgiordania che variano dalle dimensioni di una vera e propria città a quelle di piccoli villaggi, conta. E qualsiasi decisione a loro svantaggio, a partire dall’eventuale estensione del “congelamento”, comprometterebbe la coalizione di Governo.
Aldilà di convinzioni politiche, religiose o ideologiche, d’altra parte, vivere in un insediamento non è necessariamente un brutto affare, economicamente parlando. Rischi e presenza militare a parte. “Per incoraggiare gli israeliani a trasferirsi nelle colonie, Israele ha creato un meccanismo che garantisce benefici e incentivi per le colonie e i coloni, indipendentemente dalla loro condizione economica”, denuncia l’associazione Btselem (pdf).
Secondo l’organizzazione, infatti, la maggior parte delle colonie in Cisgiordania avrebbe lo status di “Area di priorità nazionale A”, permettendo pertanto agli abitanti di ottenere notevoli benefici: dai sussidi scolastici ai costi ridotti per l’acquisto di appartamenti e alla tassazione agevolata, i vantaggi sarebbero molti.
E mentre mese dopo mese e anno dopo anno il possibile ritiro di tutte le colonie si è andato trasformando in un’utopica speranza, dal fronte dell’attivismo palestinese – e non solo – le posizioni sembrano essere chiare: no ai negoziati senza uno stop alla costruzione degli insediamenti.
Mustafa Barghouthi, parlamentare palestinese, ha manifestato il proprio dissenso tramite una dichiarazione pubblicata dall’associazione Palestine Monitor, in cui ha ribadito il rifiuto di accettare negoziati diretti senza una definitiva interruzione dei lavori nelle colonie già esistenti. “Abbiamo seguito con grande preoccupazione l’aumento di pressione esterna, soprattutto da parte degli Stati Uniti e di Israele, sulla leadership dell’Autorità Palestinese (…) per un passaggio a negoziati diretti senza termini chiari e vincolanti in relazione alla totale interruzioni di tutte le attività nelle colonie all’interno del territorio palestinese occupato- inclusa Gerusalemme.”

Fonte: Unimondo.org

8 settembre 2010

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