Sul tavolo l’iniziativa di pace propone la creazione di 4 gruppi di lavoro che si occupino ognuno di un diverso bisogno: sicurezza e protezione, contro-terrorismo, questioni politiche e legali e ricostruzione. «Un processo politico guidato dai siriani che porti ad una transizione politica che rispetti le legittime aspirazioni del popolo», si legge nel comunicato del Consiglio di Sicurezza, dove per transizione si intende «la creazione di un governo inclusivo con pieni poteri esecutivi, formato sulla base del mutuo consenso e della continuità delle istituzioni governative».
Una definizione che sembrerebbe aprire all’attuale esecutivo di Damasco, seppur non venga mai nominato, una possibilità che si scontra con la realtà dei fatti. Gli Stati uniti sono irremovibili: per Assad non c’è posto. E la migliore delle giustificazioni alla sua esclusione è l’ultimo sanguinoso attacco compiuto dall’aviazione governativa contro Douma, comunità roccaforte delle opposizioni: 100 morti in sei raid contro un mercato domenica pomeriggio, uno dei peggiori massacri dal 2011. Mentre i residenti raccoglievano i corpi delle vittime, fatti a pezzi dai bombardamenti, lunedì un altro raid ha colpito la stessa cittadina. L’obiettivo – ha fatto sapere Damasco – era il gruppo di opposizione Esercito dell’Islam, responsabile di una serie di attacchi contro aree controllate dal governo nella zona (a soli 15 km di distanza dalla capitale) e dal fitto lancio di missili contro Damasco la scorsa settimana.
La condanna del mondo è giunta subito. In prima fila Washington che ha colto la palla al balzo per rifiutare le aperture mosse dall’Iran e dallo stesso governo siriano per un accordo di cessate il fuoco e di transizione politica pacifica: «Come abbiamo detto, Assad non ha legittimità per governare il popolo siriano – ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, John Kirby – [Gli Stati uniti vogliono] una transizione politica lontana da Assad».
Stessa musica viene suonata dai francesi, promotori dell’iniziativa di pace: il vice ambasciatore francese alle Nazioni Unite, Alexis Lamek, ha precisato che «Assad non è il futuro della Siria». Posizioni simili alle fallimentari conferenze di pace di Ginevra (boicottate dalle opposizioni moderate della Coalizione Nazionale Siriana) ma piuttosto vaghe: quanto dovrebbe durare il processo di transizione? Chi dovrebbe farne parte? Assad dovrebbe scomparire dal palcoscenico prima, durante o dopo? Ma soprattutto, non si comprende bene chi dovrebbe guidare tale transizione, vista la scomparsa sul campo di battaglia e su quello politico di coloro che sono stati considerati per anni dall’Occidente gli unici rappresentanti del popolo siriano, ovvero i gruppi membri della Coalizione Nazionale.
Perché sul terreno a poco serve il piano in pompa magna lanciato dagli Stati uniti tra Turchia e Giordania per addestrare e armare la cosiddetta “Nuova Forza Siriana”. Serve a poco perché non spaventa né l’Isis né al-Nusra e i suoi gruppi satellite. Di ribelli ne sono stati rimandati in Siria 54, ricoperti di armi dal valore di 41 milioni di dollari. Ma non basta: sono gli stessi miliziani a criticare il modello Usa. «17mila siriani vorrebbero unirsi al programma, ma l’addestramento è molto lento – ha raccontato alla Cnn uno dei ribelli, Abu Iskander – Dobbiamo essere più veloci: 30 giorni invece di 45 e più training. Non 85 come fatto in Giordania, ma 500 là e 500 in Turchia».
Perché, seppur le armi siano estremamente sofisticate, la Nuova Forza è talmente piccola da essere diventata subito la preda di gruppi islamisti rivali. Diciotto di loro sono stati già rapiti da al-Nusra e il resto del gruppo si è affrettato a dire di non voler combattere i qaedisti, ma solo Assad.
Il Manifesto
18 agosto 2015