Centrafrica: è mattanza di civili


Rita Plantera


Quasi 1 milione gli sfollati e più di 2000 i morti, secondo stime Onu, da quando nel marzo 2013 Bangui è stata presa dai ribelli.


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An M23 rebel marches towards the town of Sake, 26km west of Goma, as thousands of residents flee fresh fighting in the eastern Democratic Republic of the Congo town on November 22, 2012. Fighting broke out this afternoon causing people to flee the town and head east, towards Goma, to the camps for the internally displaced in the village of Mugunga. (Phil Moore/Getty Images)

Nella Repubblica Centrafricana è caccia all’uomo da ormai un anno, da quando cioè la débâcle di Bangui ha solo esacerbato lo sfaldamento di uno stato diventato nei decenni, da cenerentola dell’era coloniale, un’entità fantasma senza peso e fisionomia nella mappa geopolitica internazionale. Uno stato fantoccio, granaio di risorse minerarie alla mercé degli interessi della troika dei governi e delle economie forti di Occidente e Paesi emergenti, condannato da sempre a rimanere ai margini dell’attenzione politica regionale e globale.

Quasi 1 milione gli sfollati e più di 2000 i morti, secondo stime Onu, da quando nel marzo 2013 Bangui è stata presa dai ribelli e un colpo di stato ha rovesciato l’allora presidente François Bozizé portando al potere, quale primo capo di stato musulmano, il capo dei Seleka Michel Djotodia. I leader religiosi del Paese avevano già allora lanciato l’allarme contro gli abusi dei Seleka che nella loro marcia verso la capitale avevano bruciato chiese e abitazioni, rendendosi responsabili di stupri e esecuzioni di massa contro le comunità locali e continuando a mettere a ferro e fuoco villaggi e città anche dopo la presa delle istituzioni. Gli stessi ribelli che ora arretrano di fronte alla furia omicida delle milizie Anti-Balaka.

Linciaggi di massa, donne e bambini sgozzati nelle mosche, mutilazioni – per strada e in pieno giorno – esecuzioni esemplari oltre a saccheggi e distruzioni di case e negozi di proprietà di musulmani, quasi a volere cancellare – come osserva Peter Bouckaert di Human Rights Watch che da Bangui twitta la barbarie di cui è testimone – ogni traccia della loro esistenza.

Orde di musulmani, decine di migliaia, hanno già lasciato il Paese da quando le milizie Anti-Balaka stanno sferrando continui attacchi contro chiunque è considerato vicino ai ribelli Seleka, dunque in primis contro le comunità musulmane.

Secondo Bouckaert “è solo una questione di giorni o settimane prima che le ultime sacche di musulmani in questo paese partano per il Ciad”. Aggiungendo che “la violenza ora è in gran parte perpetrata dalle milizie Anti- Balaka che sistematicamente attaccano quartieri musulmani, ma i combattenti Seleka sono ancora in giro”.

Un esodo di massa che minaccia a breve il collasso del mercato locale e di far ulteriormente precipitare la fragile situazione umanitaria, essendo le comunità musulmane a controllare il mercato del bestiame insieme alle maggiori attività commerciali.

Il 26 gennaio 2014 il segretario di stato John Kerry aveva fatto sapere che gli Stati Uniti erano “profondamente turbati” dai reports secondo cui tanto i ribelli della coalizione Seleka quanto le milizie di autodifesa Anti-Balaka riceverebbero sostegno da alcuni leader della Repubblica Centrafricana, dicendosi pronti a prendere in considerazione sanzioni mirate contro “coloro che destabilizzano ulteriormente la situazione, o perseguono i loro fini egoistici favorendo o incoraggiando la violenza”.

Appena venti giorni prima in un’intervista a Radio France Internationale (RFI), l’ex presidente Françoise Bozizé aveva respinto le accuse lanciategli dall’allora presidente ad interim Djotodia di sostenere le milizie Anti-Balaka.

Dichiarazioni, sia quelle di Kerry che di Bozizé, che lasciano intravedere uno scenario tanto cangiante quanto lontano dai ritagli in bianco e nero di chi vuole vedere un conflitto a sfondo religioso tra musulmani e cristiani nel turbinio di violenza che sta risucchiando lo stato centrafricano.

Alla base di questa mattanza di civili ci sono infatti ragioni che vanno oltre quelle prettamente di natura religiosa. Piuttosto, invece si è difronte a una lotta politica per il controllo delle risorse in uno degli stati africani storicamente più fragili e più poveri e sotto scacco di forti quanto underground interferenze straniere.

A guidare la rivolta dei Seleka, che a marzo 2013 hanno sbaragliato le truppe governative e quelle di sostegno sudafricane, c’era l’accesso alle risorse, soprattutto di quelle petrolifere. Ed è in risposta agli incendi dei villaggi e ai massacri di massa di intere comunità che comincia la riorganizzazione più strutturata delle milizie di autodifesa Anti-Balaka, inizialmente gruppi armati locali pagati, nella totale assenza delle istituzioni, per difendere le colture e il bestiame contro i ladri e i banditi.

Gli Anti-Balaka sono in maggioranza giovani analfabeti orfani di famiglie uccise dai ribelli Seleka.

Dopo le dimissioni di Djotodia si sono divisi in due movimenti: il Front de Résistance, il gruppo maggioritario incline a negoziare con l’Unione Africana, l’ONU e la Francia,  e i Combattants pour la libération du peuple centrafricain, minoritario ma guidato da ex militari fedeli a Bozizé, legato al movimento creato da quest’ultimo in Francia – il Front pour le retour à l’ ordre constitutionnel en Centrafrique (FROCA) – quindi pro-Bozizé e da questi probabilmente usato per mettere sotto pressione le nuove autorità di transizione al fine di assicurarsi che il suo movimento venga rappresentato nel nuovo governo e in attesa di un suo ritorno al potere.

Fonte: http://nena-news.it
11 febbraio 2014

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