Cancun: cos’ha lasciato?
Francesco Martone
Mai come stavolta tentare di fornire una valutazione univoca dell’esito della Conferenza di Cancun risulta essere esercizio complesso, viste le differenti tracce di analisi possibili.
Un fallimento annunciato, Copenhagen II, un passo verso la giusta direzione, una scialuppa di salvataggio per un multilateralismo alla deriva. Mai come stavolta tentare di fornire una valutazione univoca dell’esito della Conferenza di Cancun risulta essere esercizio complesso, viste le differenti tracce di analisi possibili. Che il risultato potesse essere di basso profilo quello era ormai cosa certa. Bastava leggere attentamente il cosiddetto “testo del Presidente” del gruppo di lavoro sulla Cooperazione a largo termine (dedicato a definire le linee di lavoro sui temi dell’adattamento, mitigazione, trasferimento di tecnologie, finanze) per notare come nella selva di verbi utilizzati per definire le decisioni finali, pochi erano i verbi che definivano un qualche tipo di impegno. Tra questi quello – poi confermato a Cancun – di lanciare definitivamente un programma globale sulla riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado delle foreste (REDD – Reduced Emissions from Deforestation and Degradation), un fondo verde per il clima, un centro per il trasferimento delle tecnologie, una cornice istituzionale per gestire i programmi di adattamento. Il resto era affidato a quello che i tecnici chiamano “rolling process” un processo in itinere, nel quale si decide di non decidere, e di sostituire a impegni certi , l’opzione di tenere aperti canali di negoziato. La presidenza messicana aveva infatti optato per una strategia alternativa a quella fino ad allora attuata. Piuttosto che pensare di poter approvare un pacchetto onnicomprensivo d’impegni e di azioni, si era deciso di lavorare sui cosiddetti “building blocks”. Un gioco del Lego nel quale mattoncino per mattoncino si ricostruiva il quadro negoziale e si definivano pezzo per pezzo gli impegni politici e di spesa. Partendo dalla base, dai mattoncini sui quali si era registrato già a Copenhagen una sorta di consenso. Astuzia diplomatica e delicati equilibrismi hanno così caratterizzato la gestione della Conferenza da parte della presidenza messicana. Già a Tianjin la “vulgata” ufficiale indicava in un eventuale fallimento di Cancun il colpo di grazia per un processo multilaterale già messo a dura prova a Copenhagen, grazie alla scellerata gestione della presidenza danese, ed al colpo di mano attuato da Barack Obama ed altri paesi che imposero un accordo non vincolante di fatto contraddicendo le più elementari regole del consenso. Allora il “Copenhagen Accord” venne “notato” dalla Conferenza delle Parti, non essendo testo ufficiale di negoziato, né condiviso da alcuni paesi quali la Bolivia, e l’Ecuador. Allora l’ALBA sembrava potesse essere un nuovo importante attore nel negoziato globale. Oggi, al conteggio finale del dopo Cancun, la Bolivia risulta essere più isolata che mai. L’Ambasciatore Pablo Solon – a parte qualche manifestazione di sostegno di circostanza fatta dai tradizionali alleati (Nicaragua, Cuba, Ecuador) – è stato lasciato solo, come un Davide contro Golia a reiterare l’inadeguatezza dell’accordo finale, possibile complice di “genocidio ed ecocidio” (così nelle sue parole). Oggi gli “Accordi di Cancun” (“Cancun Agreements”) vengono accettati da tutti, chi più e chi meno, come un minimo comun denominatore necessario per tenere aperto il negoziato multilaterale verso la prossima Conferenza delle Parti di Durban 2011. Quale sarà lo scenario dei prossimi mesi è difficile prevedere, sicuramente però si possono già intuire quelli che saranno le questioni sulle quali si concentrerà il negoziato. Prima fra tutte quella relativa al supporto al secondo periodo d’ implementazione del Protocollo di Kyoto, protocollo messo a dura prova dal fuoco incrociato di Canada, Giappone Stati Uniti, e per ultimo dalla Russia che aveva annunciato proprio a Cancun la sua decisione di non sottoscrivere il secondo periodo di impegno. Di riflesso l’inattesa apertura di India e Cina pronte ad accettare impegni di riduzione delle emissioni, in cambio di un sostegno al protocollo di Kyoto ha contributo a ridisegnare i rapporti di forza negoziali, dando al gruppo BASIC (Brasile, Cina, Sudafrica e India) un ruolo propulsore, e lasciando gli Stati Uniti all’angolo, stretti tra il rilancio di Cina ed India ed un Congresso a maggioranza repubblicana che non permette strappi in avanti. Se una similitudine si può trovare con il negoziato di Cancun 2003 all’Organizzazione Mondiale del Commercio forse è proprio quella relativa al rafforzamento del ruolo dei paesi BASIC che allora diedero il colpo di grazia al Doha Round ed ora invece una boccata d’ossigeno alla Conferenza sui Mutamenti Climatici. Il Protocollo di Kyoto resta così in piedi, ma duramente provato: basti leggere le parti relative agli impegni di riduzione delle emissioni accettate a Cancun per capirne il destino. In un gioco d’incastri tra vari documenti, necessario per mantenere un equilibrio tra esigenze dei paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, si è nei fatti ribadito il contenuto dell’Accordo di Copenhagen. Stabilizzazione della crescita di temperatura a 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali (che in molti ritengono comunque letale ad esempio per i piccoli paesi insulari) sottoposta però a revisione nel 2015 nell’ottica di una possibile riduzione a 1,5 gradi. Alcuni osservatori hanno accolto questa decisione con soddisfazione visto che per la prima volta il limite dei 2 gradi verrebbe incluso in un accordo internazionale. Al posto dei cosiddetti MRV (Monitoring Reporting and Verification) il vero irritante del negoziato degli ultimi mesi, si è sostituito un sistema di verifica “leggero”, “non intrusivo” e “rispettoso della sovranità”. A Cancun si è poi fissato definitivamente il 1990 come l’anno di riferimento per calcolare il livello di riduzione delle emissioni, anche se poi si lascia ampia discrezionalità ai paesi di decidere per una data differente. Il vero bandolo della matassa riguarda il rapporto tra impegni di riduzione e piani di mitigazione nazionali, che – a detta dei paesi in via d’ industrializzazione – rischiano di essere eccessivamente onerosi riguardo alle loro prospettive di crescita. Allora il primo nodo che i negoziati verso Durban dovranno sciogliere è proprio questo che tiene ancorati i destini del protocollo di Kyoto ai piani di mitigazione. Sul protocollo di Kyoto e sulla “forma legale” del nuovo accordo vincolante, la partita è ancora aperta. Si è esteso di un anno il mandato del gruppo di lavoro dedicato, con l’obiettivo di continuare a discutere sullo strumento da adottare, ossia se proporre un nuovo protocollo, o un’ appendice al vecchio. O se seguire il sistema – nei fatti legittimato a Cancun – del cosiddetto “pledge and review” proposto dagli USA e del quale l’Accordo di Copenhagen è imbevuto: ci impegniamo sulla carta a ridurre le emissioni e di volta in volta facciamo e verifiche del caso. Nessuna sanzione, nessun impegno chiaro. A queste condizioni il Protocollo resterebbe sì in piedi , ma come una “imago sine re”, immagine senza sostanza. Sul tema delle finanze per i programmi sul clima, è stato lanciato definitivamente il Fondo Verde per il Clima, la cui struttura dovrà essere definita da un gruppo di lavoro ad hoc entro la Conferenza di Durban. Questo fondo dovrà essere sotto l’autorità della Conferenza delle Parti, ma per i primi tre anni affidato alla Banca Mondiale che opererà come amministratore fiduciario. Un colpo al cerchio uno alla botte, per chi voleva la banca mondiale attore centrale dei finanziamenti per il clima e chi invece la voleva fuori. Peccato che ci si scordi di due dettagli non indifferenti: il primo che la Banca Mondiale è l’istituzione pubblica di sviluppo maggiormente coinvolta nel sostegno ai combustibili fossili ed il secondo che il suo ruolo come amministratore fiduciario è risultato essere discutibile e di scarsa efficacia come attestato da alcune valutazioni interne in corso. E di quanti soldi stiamo parlando? A Cancun si riafferma l’impegno a stanziare 30 miliardi di dollari l’anno fino al 2012 e da allora in poi 100 miliardi di dollari, ma dove andare a trovare queste somme è ancora poco chiaro. Da una parte va rilevato che non si è adottato alcun impegno sul sostegno a meccanismi di mercato per il finanziamento dei programmi di mitigazione, né per la costruzione di un mercato mondiale di permessi di emissione, anche se viene ribadita la centralità dei meccanismi di flessibilità previsti da Kyoto. Dall’altra però nulla è stato deciso sugli impegni di spesa relativi a fondi pubblici , nuovi ed addizionali, e non riciclati dalla cooperazione allo sviluppo, che devono invece essere la principale fonte di sostegno ai programmi di adattamento e mitigazione. Il rapporto stilato dal gruppo di lavoro ad hoc costituito da Ban Ki Mun identifica poi alcune ipotesi quali una carbon tax globale, o addirittura una possibile tassazione sulle transazioni finanziarie che però non ha avuto grande eco nel negoziato. Certo è che da Cancun parte un segnale chiaro verso il settore privato, che può vedere nella “green economy” e nella transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio un’importante opportunità. A leggere il documento finale di Cancun risulta evidente che tutto il tema dei mutamenti climatici resta solidamente ancorato ad un paradigma economico e di sviluppo che continua a vedere nella crescita economica (“high growth”) il parametro centrale di riferimento. Questo forse è il vero grande limite del negoziato: quello di non prospettare una vera inversione di rotta, un nuovo modello che possa mettere in sinergia ambiente inteso come giustizia ambientale, ed economia intesa come sganciamento progressivo dal falso mito della crescita. Su questo il lavoro da fare è ancora molto soprattutto per creare e irrobustire quella domanda politica dal “basso” che può contribuire a scalfire la fiducia mal riposta nel modello di mercato e di crescita. Lasciare tutti i destini del Pianeta solo ed esclusivamente ad un negoziato internazionale tra stati rischia di legittimare una corsa verso il ribasso, se in questo negoziato le uniche due forze trainanti sono gli interessi nazionali degli stati , o quelli del posizionamento nella governance globale, e l’opportunismo delle imprese. Perché se da Cancun si è deciso di tenere in vita il processo multilaterale, varrà ora la pena di interrogarsi di quale multilateralismo si stia parlando, giacché il ruolo dei movimenti della società civile, delle municipalità, dei soggetti non statuali altri rispetto agli Stati ne è risultato fortemente eroso. Chi era a Cancun non ha potuto non constatare la grande difficoltà di incidere e seguire le trattative, quasi tutte a porte chiuse, ed anche prendere atto della frammentazione dei movimenti, riuniti in ben 4 coordinamenti ed iniziative differenti che ne hanno certamente diluito la capacità di incidenza politica. Al di là delle questioni specifiche relative al clima ed al modello energetico, che oggi più di prima devono essere affrontate soprattutto a livello nazionale e locale, Cancun ci lascia quindi un messaggio chiaro riguardo all’urgenza di costruire nuove alleanze, tra movimenti sociali, ed ambientali, piccole e medie imprese dedicate alle energie rinnovabili ed al risparmio energetico, comunità che già applicano metodi di adattamento e mitigazione dei mutamenti climatici, organizzazioni indigene e contadine, amministrazioni locali “virtuose”, sindacati. Senza questa convergenza di soggetti politici, il percorso verso Durban rischia di restare un percorso tra Stati, guidato quindi solo ed esclusivamente dall’urgenza di conciliare un generico interesse nazionale con l’imperativo categorico della crescita economica. E dal quale difficilmente difficilmente potrà derivare una netta inversione di rotta.
Articolo di Francesco Martone
16 dicembre 2010