Bush in Medio Oriente tra i cocci di Annapolis
Igor Man
E’ previsto per oggi, alle 12.00 ora locale, l’arrivo a Tel Aviv del capo di stato statunitense George W. Bush, alla sua prima visita in Israele e Palestina da presidente. Bush, che si recherà anche in Cisgiordania, incontrerà i suoi omologhi Shimon Peres e Mahmoud Abbas, oltre al premier israeliano Ehud Olmert.
«Storico», così un portavoce della Casa Bianca a corto di immaginazione ha definito il viaggio (comincia oggi) del presidente Bush in Medio Oriente. È il primo viaggio nel Vicino Levante di Dabliù presidente degli Stati Uniti e il suo percorso, studiato con il bilancino del farmacista, ripropone alla mente i giorni, essi sì «storici», che precedettero la guerra contro Saddam Hussein reo di aver stuprato il Kuwait, cassaforte mondiale d’oro giallo e nero, business center del mondo occidentale più ricco. Certamente il ladro di Baghdad (la definizione è di Le Monde) autore di tanto scippo andava punito, «ma se il Kuwait avesse prodotto broccoli?», si chiese il New York Times. Allora a guidare gli Stati Uniti era il grigio padre dell’attuale presidente, quel George Bush ispirato da un segretario di Stato di grande equilibrio e carisma, George Baker III forgiatore di una coalizione anti-Saddam che comprendeva persino il Leone di Damasco, quell’enigmatico Assad che aveva messo a disposizione dei sottomarini dell’Urss il porto siriano di Lattakia. Anche allora si definì «storico» il fronte anti-Saddam, anche nella vigilia della Desert Storm ci furono incontri «storici», tanto è vero che alla prima Guerra del Golfo seguì la Conferenza di Pace di Madrid, invero un accadimento storico. In forza di un’intelligente acrobazia diplomatico-protocollare, non fu Arafat il capo della delegazione palestinese ma il pediatra dottor Al Shaafi, rispettato esponente di Al Fatah. Grazie agli Stati Uniti, alla presenza armata (ma discreta) dei GI in Arabia Saudita, il «Vaticano dell’islam», la Conferenza di Madrid fu la premessa (epocale) dei rimpianti accordi di Oslo.
Retrospettivamente concorderemo con chi allora li definì «abborracciati» ma è pur vero che se non avessero ammazzato Rabin oggi in Terra Santa regnerebbe la pace fra due Popoli di Dio ancorché non senza difficoltà. E questo grazie, appunto, agli accordi di Oslo. Oggi è tutta un’altra storia e Bush in fatto viene a raccogliere i cocci di Annapolis: tanta euforia per nulla. Ma quella conferenza non aveva sancito la validità una volta ancora della road map della pace? Il dopo Annapolis è sconfortante: Hamas ha fatto della striscia di Gaza un avamposto provocatore, una Fort Alamo mediorientale dove fanatismo suicida e analfabetismo politico producono una mistura incontrollabile anche per gli stessi apprendisti stregoni con la kaffia. In Cisgiordania deperisce giorno dopo giorno il «presidente» della cosiddetta Autorità palestinese, il buon palazzinaro Abu Mazen rassegnato a tutto fuorché al ruolo di Quisling.
Su questo sfondo il viaggio di Bush in Medio Oriente rasenta il patetico. Egli s’è impegnato a proporre «validi compromessi» su Gerusalemme Est palestinese, sui rifugiati, e dulcis in fundo il riconoscimento (da parte dei palestinesi) dello Stato degli Ebrei: Israele. Come osserva un israeliano-doc, il prof. R. A. Segre, «il massimo delle concessioni che Israele è disposto a fare è molto lontano dal minimo che i palestinesi possono fare senza rischiare la vita».
Si vuole che oggi per Bush sia molto più facile strappare concessioni al primo ministro Olmert. Ma costui, descritto in difficoltà a causa del rapporto Viniograd che tronca la sua guerra del Libano, in fatto sembra aver superato ogni crisi, personale e di governo.
Sicché i «compromessi» di Bush finiranno fatalmente nel cassetto dei sogni. Paradossalmente i ruoli andrebbero rovesciati: l’anatra zoppa Bush non ha, fuor di Israele, amici-alleati. Di più: Israele ha salde in mano le chiavi della crisi nucleare iraniana e della stabilità energetica internazionale. Ergo Dabliù ha più bisogno di Olmert di quanto il premier israeliano non abbia bisogno di Bush. Sotto Olmert il terrorismo suicida è pressoché scomparso, i palestinesi-bene sembrano essersi rassegnati al nullismo del buon Abu Mazen, la crisi libanese grazie all’Onu s’è fatta piuttosto controllabile e questo apre ipotesi di scenari niente affatto cruenti con la Siria.
La Palestina può attendere. Ma cosa? Forse semplicemente un accadimento oggi come oggi inimmaginabile. Intendiamo la liberazione di Barghouti, il leader palestinese in galera con quattro ergastoli sulle spalle forti di patriota non rassegnato. La chiave della pace in Palestina è un Mandela palestinese. Barghouti? Non è impossibile.
Fonte: www.lastampa.it
9 gennaio 2008