Birmania, i ribelli dello Shan preparano le armi
Daniele Mastrogiacomo
L’opposizione s’è resa conto che senza i fucili non andrà lontano. Ecco come le "tigri" hanno deciso di non lasciarsi più massacrare.
KALAW – U Tu Way fa quello che un birmano non osa fare mai: si lascia andare, parla di politica. Approfitta della birra che gli imprime più coraggio, butta giù l'ennesimo sorso e si libera di un rospo che si è tenuto dentro per vent'anni. "La rinascita partirà da qui, da queste montagne", annuncia. "I segnali mi dicono che sarà così. Durante le rivolte del 1988 sono stato un leader studentesco. Ci abbiamo creduto fino in fondo con forza e dignità. Molti sono morti, tantissimi scomparsi, altri fuggiti. Altri ancora, forse migliaia, restano in prigione. Abbiamo perso, ma la prossima volta non finirà in questo modo. La gente non ce la fa più, vuole cambiare, ha bisogno di aria nuova. I generali, i nostri padroni, hanno fatto il loro tempo".
U Tu Way parla piano, quasi sotto voce. Il regime di Than Shwe ha creato una tale psicosi che i birmani non si sentono sicuri neanche in casa. Cerca le parole che non trova. Guarda fuori dalla finestra della sua bella baita in tek, in cima ad una delle montagne che circondano questo villaggio della grande provincia dello Shan, nord-est del paese. Si passa la mano sulla gamba sinistra. Ce la indica: "Non ci sono più tendini. E' accaduto in prigione". Si blocca un attimo. La gola è stretta dall'emozione: per i ricordi che tornano ad affiorare, per lo straniero a cui confessa l'inconfessabile.
Parla e gli occhi gli diventano lucidi, le palpebre iniziano a tremare, assieme al viso che assume una smorfia di dolore.
Osserviamo questo uomo che abbiamo conosciuto qualche ora prima, davanti ad una bottega di Kalaw: un centro turistico per eccellenza, frequentato soprattutto per i suoi trekking, lungo sentieri selvaggi avvolti da boschi di grandi pini, ciuffi di bamboo che sembrano pertiche e distese di tek che svettano verso il cielo. Lo vedevamo fiero, sorridente, ironico, capace di superare quel distacco così innaturale per un birmano che una dittatura feroce e oppressiva impone dal 1962.
Adesso è cupo, triste, sembra improvvisamente sentire il peso degli anni. Il turbante arancione, un piccolo asciugamano che gli avvolge parte del capo e le fronte, tipico di tutti gli shan, scivola su un lato. Gli incubi si affacciano prepotenti. E' diviso, combattuto: vorrebbe continuare il discorso, sfogare la rabbia che cova dentro da troppo tempo. Ma ha paura. Non si fida. Le spie, in Birmania, sono ovunque. I regimi militari vivono di spionaggio.
"Tre anni di carcere", si scusa dopo un lungo silenzio imbarazzato, "non si dimenticano facilmente. Per sei mesi ci hanno chiuso in un buco senza aria e senza finestre. Poteva contenere 20 persone, eravamo in 140. Studenti soprattutto, ma anche commercianti, medici, avvocati, ingegneri. Tutti presi per strada in pieno giorno; oppure dentro casa, di notte, strappati ai loro letti. E' stato dopo la rivolta, quando sono riusciti a piegarci con i fucili. Avevano filmato e fotografato tutti: era facile venire a cercarci. Noi viviamo qui e qui siamo rimasti. Ci hanno portati dentro una caserma, infilati in un cunicolo che sfociava in una stanza con una sola presa d'aria, sul tetto fatto a cupola. Per respirare ci mettevano l'uno sull'altro. Ma resistevano solo quelli in cima; gli altri morivano, piano piano, soffocati. Non so quanti siano crepati. Ho perso il conto; in quelle condizioni non riesci a capire neanche dove sei. La prima settimana ne liberarono una ventina. Altri venti la settimana successiva, quindi ancora venti, fino a quando rimasi solo. Per un mese di fila: senza vedere la luce, in mezzo ai miei bisogni. Ci interrogavano militari venuti da un'altra regione, quelli del posto li conosciamo, non si fidavano. Volevano sapere quanti eravamo, chi guidava le proteste. Tecniche raffinate e umilianti. Se avevo caldo mi facevamo sedere su un cubo di ghiaccio e mi obbligavano a restare immobile tre, quattro ore. Se chiedevo da bere, aprivano un rubinetto piazzato sul soffitto e facevano cadere una goccia d'acqua che mi colpiva sempre sullo stesso punto". Si tocca la spalla: "Credo che si chiami la goccia cinese. Atroce, un dolore insopportabile".
Tu Way oggi fa il commerciante, circondato da ragazze raccolte in quelli che chiama i villaggi "invisibili". Le tratta come figlie: le ospita in casa, dove cucinano e rassettano e lui, in cambio, le manda a scuola. "In Birmania", ci spiega, "studiare è un privilegio per pochi, soprattutto per i figli dei militari. Hanno mezzi e potere. Servono un sacco di soldi, per i libri e per le divise. Così alla fine moltissimi rinunciano e se sono fortunati trovano qualche lavoretto".
L'uomo che ci sta seduto di fronte ha smesso di fare politica, per uscire da quell'inferno ha dovuto firmare un impegno al silenzio. Per sempre. Ma non ha rinunciato alla democrazia. Crede che il cambiamento sia ancora possibile. Resta indifferente quando gli diciamo che la giunta militare, pochi giorni fa, ha messo fuori gioco la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi: non si potrà candidare alle elezioni fissate per il 2010. La considera una mossa prevedibile.
Il premio Nobel per la pace è un'icona troppo pericolosa per i vecchi generali aggrappati ad un potere che consente affari d'oro con i ricchi paesi asiatici. Per farci capire, Tu Way ricorre ad un proverbio: "Da noi si dice che le autorità amano solo tre colori: il bianco dell'eroina, il rosso del rubino, il verde della giada". E' convinto che la nuova spinta verso il cambiamento arriverà dalle minoranze etniche. "Ho sentito", ci dice, "che a pochi chilometri da qui si è sparato. Sono stati uccisi molti soldati del regime. L'esercito clandestino dello Shan e quello degli Arcan si sono alleati. Dopo la rivolta del settembre scorso abbiamo capito che senza fucili non si può ottenere nulla".
La tentazione della lotta armata è il nuovo sentimento che aleggia sulla Birmania. Le "tigri" dello Shan si nascondono dietro l'ultima collina. La vediamo in lontananza, oltre la giungla che ci circonda, dopo le risaie verde giada che illuminano le valli. A bordo di una jeep vecchia e sgangherata scivoliamo su una stradina di terra rossa scavata a mano da centinaia di uomini, lungo il costone di una montagna che delimita il confine con la "terra proibita".
Il Triangolo d'oro è cento chilometri più a nord. Per raggiungere quella zona bisogna avere un permesso speciale che non viene mai concesso. Ufficialmente per motivi di sicurezza, ma in realtà perché oltre alla produzione di oppio, alla raffinazione di eroina, la "terra proibita" è il centro del traffico di pietre preziose, di cui i cinesi sono maestri, e del contrabbando di armi in mano a bande sciolte che si spartiscono il territorio.
U Tu Way se ne tiene alla larga. Si dedica alla sua terra, ai villaggi sparpagliati nella giungla, scoperti solo venti anni fa. Nessuno sa come e quando sono nati. Per le autorità sono "invisibili". Ma dentro quelle decine di case, sorrette da pilastri in tek, con il tetto in lamiera e la struttura in bambù, vivono centinaia di uomini, donne e bambini. Comunità fiere, con un loro passato, una loro tradizione che la nostra guida ha legato al mondo reale e reso finalmente "visibili". E' gente pacifica, ma ben organizzata.
Tu Way mi spiega che hanno armi e munizioni, le tengono nascoste e sono pronti a tirarle fuori. Lo hanno già fatto. La censura, efficientissima, blocca ogni notizia. Ma abbiamo sentito parlare spesso di esplosioni e di scontri armati in questa regione. Lo conferma il capo del villaggio che ha le idee chiarissime. "Noi apparteniamo allo Stato dello Shan e chiunque dovesse governare deve fare i conti con noi". Gli chiediamo cosa pensa delle elezioni previste nel 2010. Scoppia in una grossa risata: "Le ultime le hanno annullate".
Ogni giorno la nostra guida percorre questo viottolo che si inerpica come un serpente sulle montagne. Raggiunge i villaggi e tiene il suo discorso: di prevenzione sanitaria, di idraulica, di ingegneria. Dentro la casa principale si radunano gli abitanti: gli uomini seduti in prima fila; le donne, dietro, con i bambini.
Si discute di tutto: della nuova scuola in costruzione e dell'acqua presente da due mesi nel villaggio grazie al contributo di alcune ong straniere. Si tratta di cose concrete. La zona è ricchissima di ruscelli e torrenti. Ma si trovano duecento metri più a valle. Per raccoglierla bisognava scendere un costone ripido in mezzo alla giungla e poi risalire con due taniche legate ad un asta come bilanciere e piazzate sulle spalle. Ci voleva una giornata intera per raccogliere venti litri. U Thu Wa ha fatto allagare un fossato e lo ha trasformato in un bacino che viene alimentato da un ruscello.
Di qui si snoda il sistema di irrigazione che fornisce acqua a tutte le case, ma soprattutto elettricità, grazie ad una turbina azionata da una cascata.
L'ex leader studentesco illustra i benefici di questo piccolo miracolo e la gente ascolta, assorta, spesso annuendo, discutendo fino a quando si decidono altre innovazioni. "Oggi faccio politica in questo modo", commenta divertito U Tu Way. "La gente prima moriva per una dissenteria. Nei villaggi si vive a contatto con gli animali: si dorme, si mangia, si fanno i propri bisogni tutti insieme. Con l'acqua razionata, bastava niente per ammalarsi".
Invisibili, sconosciuti al governo centrale, queste centinaia di villaggi ora sono collegati a cittadine come Kalaw. Hanno scoperto l'altra Birmania.
Sono guidati da uomini che sanno usare il computer, da donne che hanno imparato a leggere e scrivere, da giovani che frequentano l'università. Per tutti sono le "tigri" dello Shan. Lo sono anche per U Tu Way: "Questa volta", ricorda ancora, "non ci faremo massacrare. Le armi sono state prese dove si trovano. Molti erano stati arruolati a forza nell'esercito. Hanno disertato, portandosi dietro i fucili".
Fonte: Repubblica.it
11 marzo 2008
Daniele Mastrogiacomo è inviato in Birmania